Perché conservare tutte le foto sullo smartphone o nel cloud non è una buona idea. Intervista a Francesco Cara
Nell’idea comune tutto quello che è digitale è percepito come immateriale, etereo, non tangibile e quindi incapace di consumare risorse. Una mail, una foto, un allegato, sono tutti oggetti digitali potenzialmente riproducibili all’infinito e ogni copia così come ogni conservazione della copia necessita invece di energia. Energia e risorse per la produzione dei data center, energia per alimentare gli impianti ed energia per gestire lo scambio di dati. Una quantità di energia sempre maggiore, perché sempre maggiori sono le quantità di informazioni che ci scambiano ogni giorno e sempre di più sono le tecnologia che necessitano un flusso continuo di informazioni.
Francesco Cara insegna Ecodesign allo IED di Milano. È un attivista della rete globale Climate Reality Project e della coalizione europea Right to Repair per il diritto universale alla riparazione. In precedenza è stato direttore del design a Nokia, PublicisSapient e IconMedialab. È co-autore del libro Ecologia Digitale edito da Altreconomia, di cui si parlerà nel prossimo incontro di Impact Conversation organizzato da Change Makers Magazine in collaborazione con Altreconomia, Ashoka Italia, Cubbit, Generazione Changemakers e Poliferie.
Con lui abbiam parlato di cos’è l’Ecologia digitale e di cosa possiamo fare diminuire il nostro impatto.
Buongiorno Francesco Cara, partiamo dal suo lavoro: ci spiega cos’è l’Eco design e di cosa si occupa?
L’Eco Design è una forma di design che cerca di ridurre al massimo l’impronta ambientale di ciò che viene progettato, che sia un prodotto, che sia un servizio o uno spazio e che nelle sue ultime versioni cerca di essere rigenerativo, per cui nella progettazione si cerca non solo di ridurre l’impronta, ma anche di contribuire alla rigenerazione, che può essere una rigenerazione ambientale o sociale.
Sembra l’opposto di quello che è l’idea comune degli oggetti tecnologici, programmati per invecchiare presto ed essere buttati via.
Questo tipo di progettazione si iscrive in una logica di economia circolare per cui si progetta pensando già al fin di vita, in modo che, per esempio, l’oggetto che è stato progettato sia facilmente smontabile e separabile nei suoi componenti e che i materiali che vengono utilizzati siano materiali o organici, che quindi possono riprendere il ciclo biologico oppure dei prodotti industriali che possono essere riutilizzati in altri prodotti.
E poi si progetta pensando alla riparazione mettendo a disposizione i pezzi di ricambio, in modo che se ad esempio si rompe lo schermo dello smartphone può essere facilmente sostituito.
Un altro aspetto è quello della riduzione dell’impatto durante la fabbricazione, scegliendo attentamente le materie prime di partenza, le componenti che hanno, che siano tracciabili e di cui l’origine è conosciuta. Così facendo si evitano, per esempio, minerali che vengono da zone di conflitto. Un bellissimo esempio nel mondo degli smartphone è Fairphone, un telefono che è stato progettato in Olanda ideato per poter essere facilmente aggiustato
Mi sembra che in sempre più ambiti guardare al futuro significa a volte volgersi al passato: guardare a come si facevano le cose una volta e attualizzare i processi al presente. Penso alla mobilità cittadina, ai processi produttivi dell’agrifood ma anche alla moda.
Ecco, io ho la fortuna di insegnare in una scuola di design con dei ragazzi che sono molto, molto sensibili a queste tematiche. Per esempio per gli studenti di moda che guardano al vintage o alla rielaborazione dei vestiti esistenti, oppure che vogliono imparare a riparare, aggiustare, modificare, aggiornare eccetera. Per cui c’è veramente questa cultura che sta tornando e che poi viene reinterpretata.
Il digitale è spesso associato a qualcosa di etereo in cui non c’è materialità e quindi non c’è consumo. Nel libro Ecologia Digitale, lei e altri autori, dimostrate che ovviamente non è così.
Ecologia digitale è il nostro modo per andare al di là di questa immagine che descrive lei, del fatto che tutti noi ci siamo abituati a pensare al digitale come ad una sfera immateriale, una sfera virtuale, una sfera che ha poco impatto sull’ambiente e sulla società.
Ecco con Ecologia Digitale abbiamo voluto esplorare tutti gli impatti che invece il digitale ha, partendo dagli impatti dei materiali che vengono utilizzati. Abbiamo guardato all’energia, quella che viene consumata nel mondo digitale; abbiamo guardato al lavoro, chiedendoci ad esempio che tipo di controllo digitale del lavoro sta emergendo sempre di più.
Abbiamo guardato al digitale anche dal punto di vista delle opportunità che crea, per esempio per l’attivismo e per la partecipazione nei processi politici. Insomma, abbiamo messo insieme diversi aspetti da quelli materiali a quelli politici e economici.
Un lavoro collettivo a cui hanno partecipato tantissime persone con prospettive diverse.
A un certo punto lei fa un interessante paragone tra l’industria petrolifera degli anni 80 in cui c’erano aziende tra le più capitalizzate in borsa e quelle dell’economia digitale, che in pratica oggi le hanno sostituite. In cosa si assomigliano questi due tipi di industria?
All’inizio degli anni 2000 il matematico e guru del marketing britannico Clive Humby coniò lo slogan “i dati sono il nuovo petrolio” consacrando la posizione dominante assunta dall’economia digitale che soppiantava l’industria petrolifera.
Quando questo emerge tutti hanno considerato i dati solo come enorme fonte di ricchezza, mentre io ho voluto invece vedere come dati e petrolio, oltre i profitti, hanno in comune anche la radice estrattivista. Sappiamo che il petrolio porta con sé problemi legati all’estrazione, all’esplorazione, alla distribuzione, producendo zone di sacrificio in giro per il mondo, conflitti e generando ricchezze grandissime ed estrema povertà negli stessi spazi, ovvero poca ridistribuzione. Ecco, il petrolio è l’esempio massimo di una cultura e di una società fondata sull’estrattivismo. Ma andando a vedere l’industria digitale ci si rende conto che anche qui l’elemento estrattivista legato alle materie prime è fondamentale, basti pensare al litio delle batterie, all’oro e il rame dei circuiti e potremmo continuare la lista a lungo. Ecco, senza quei minerali il digitale non potrebbe esistere, così come senza l’enorme disponibilità di energia: larga parte dell’innovazione digitale non potrebbe esistere, per cui nella sua innovazione essa stessa si basa su fonti fossili. Fino a che non saremo rinnovabili, ovviamente. E poi, quando guardiamo all’elemento controllo digitale del lavoro, ci ritroviamo di nuovo in una situazione di sfruttamento e di sistema sociale che è molto simile a quello che si crea nelle società del petrolio.
Fa una certa impressione il dato che fotografa la domanda di elettricità da parte dell’industria digitale tre il 2,1% e il 2,5%. Una richiesta di energia che tra l’altro ancora non aveva fatto i conti con la crisi energetica attuale
Siamo praticamente al livello dell’industria dei trasporti aerei, per cui è un dato molto significativo e soprattutto è un dato in forte crescita, perché ora abbiamo delle nuove tecnologie che sono alla base di quella che sarà l’infrastruttura di domani come per esempio l’intelligenza artificiale. L’apprendimento di un algoritmo di machine learning, richiede tanta energia quanto 68 abitazioni negli Stati Uniti e sappiamo che nei sistemi di machine learning l’apprendimento è costante, per cui questo consumo è un consumo che non potrà che crescere esponenzialmente.
Recentemente, abbiamo avuto una buona notizia dal punto di vista del consumo energetico: Etherium una delle delle criptovalute più utilizzate ha cambiato il modo in cui le validazioni delle transazioni vengono eseguite, passando da un dispendioso sistema Proof of Work a un sistema Proof of Stake, che consuma uno/due centesimi in meno di quello che consuma Bitcoin. Quindi una riduzione dei consumi molto significativa. Chiaramente Etherium è solo una delle criptovalute. Tutte le altre criptovalute continuano a funzionare come prima, e quindi con un consumo assolutamente spaventoso.
E poi c’è anche il problema dei server che sono sempre più energivori
Esattamente. Il nostro libro si apre con la prefazione di Gerry McGovern che ha scritto un bellissimo libro che si chiama WWW che sta per World Wide Waste. Lui ci dice che i nostri server sono sempre più potenti, ce ne sono sempre di più, consumano sempre di più.
Ma in effetti sono delle grandi discariche di dati, perché noi tutti individui, società, amministrazioni, eccetera, creiamo tantissimi dati. Questi dati vengono conservati, vengono riprodotti su vari, server ma oggettivamente sono dati che useremo una volta sola. Però continuiamo ad accomularli e questo è uno dei grandi problemi dei server che oltretutto sono grandi consumatori di elettricità, grandi consumatori di acqua per il raffreddamento e grandi consumatori di suolo.
Ma quindi secondo lei siamo già arrivati al punto in cui dobbiamo chiederci se conservare o meno i nostri dati, come ad esempio, le tonnellate di fotografie che abbiamo tutti nel telefono o nel cloud?
Un po’ di morigeratezza e attenzione non guasterebbe di certo. Sarebbe veramente un grande passo iniziare a considerare gli oggetti digitali, come oggetti materiali, e quindi a gestirli in modo più intelligente.
Cosa possiamo fare quindi per mettere in pratica un vero ecologismo digitale?
Si potrebbero dare tanti consigli, come quello di fare a fine mese la pulizia delle fotografie, dei messaggi e delle tante copie di documenti che abbiamo conservato e che sappiamo che non guarderemo mai più. E chiaramente facendolo, dovremmo essere sicuri che le stesse operazioni avvengano anche a livello dei server.
Poi dobbiamo di andare sempre di più verso un’economia circolare e cercare di prolungare la vita di tutti gli apparecchi che possediamo; per cui il telefono, che in Europa ha una vita media di 2-3 anni, bisogna cercare di sceglierlo longevo, riparabile e bisogna cercare di utilizzarlo il più a lungo possibile; lo stesso vale per il computer e per tutto il resto.
Quando, per esempio, un vecchio PC diventa troppo lento bisognerebbe abbandonare il sistema Windows e scaricare Linux che richiede molte meno risorse e di conseguenza scaricare gli applicativi open source che vanno su Linux.
Questo è molto importante, perché in tutti questi dispositivi l’impronta ecologica è essenzialmente legata alla produzione e quindi all’estrazione dei materiali che servono per costruirli. L’uso ha un impatto di circa il 20%, per cui più noi lo prolunghiamo, meno abbiamo dobbiamo far ricorso a materia prima e più a lungo facciamo durare gli investimenti fatti in termini energetici durante la produzione.
Questo è veramente molto importante.
Nel libro c’è un bellissimo capitolo scritto da Carlo Gubitosa che tratta di tutte le alternative che esistono oggi alle grandi piattaforme come YouTube, WhatsApp ecc. E di come i servizi che sono funzionalmente equivalenti e sono costruiti in open source, hanno un impatto ecologico molto inferiore.
Perché sono più leggeri e quindi consumano meno
E non ci sono tutti i trucchi, diciamo, per influenzarci e per utilizzare i nostri dati.
In conclusione?
Bisogna applicare al mondo della tecnologia gli stessi criteri che noi applichiamo per un consumo equo e solidale cioè operare con questo stesso spirito.
Per esempio quando scegliamo di fare degli acquisti online, dobbiamo farlo con moderazione, magari scegliendo piattaforme che sono più sostenibili di altre
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