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Giada Mondanelli è la migliore ricercatrice scientifica under 35. Alle ragazze dico: “la passione viene prima del lavoro”

Giada Mondanelli è una giovane ricercatrice italiana che lavora all’Università di Perugia. Ha vinto l’ultima edizione del Premio EWMD – European Women’s Management Development
per la migliore ricerca scientifica di una ricercatrice italiana under 35, con uno studio su una sostanza (NAS, N-acetilserotonina) che potrebbe avere una funzione terapeutica in patologie autoimmuni come la sclerosi multipla.
Il contesto del premio è quello del 4°Meeting del TIWS, acronimo che sta per Top Italian Women Scientists, un’associazione che comprende le più qualificate ricercatrici in campo biomedico, nelle scienze cliniche e nelle neuroscienze, che ha tra gli obiettivi quello promuovere la ricerca femminile di eccellenza.

Ci siamo fatti raccontare dalla dott.ssa Mondanelli il suo percorso, la sua ricerca e il perché in ambito Stem (science, technology, engineering and mathematics), ci siano ancora poche donne rispetto agli uomini.

Buongiorno dott.ssa Mondanelli, ci racconta il suo percorso di studi?

Sono laureata in Chimica e tecnologie farmaceutiche all’Università degli Studi di Perugia e poi ho fatto un dottorato di ricerca in Biologia e medicina sperimentale sempre all’Università di Perugia. Poi nel 2015 durante il dottorato, ho passato un periodo all’estero, in California, con un progetto inerente al percorso di lavoro. Infine ho intrapreso la carriera e la vita precaria della ricerca e adesso ho un contratto da ricercatore a tempo determinato in scadenza.

Visto l’anno passato in California non ha avuto la tentazione di rimanerci?

La tentazione indubbiamente c’è stata anche perché quello era sostanzialmente l’ultimo anno del mio dottorato e avevo anche ricevuto una proposta da parte del responsabile del laboratorio dove svolgevo l’attività di ricerca. Poi però, per una serie di motivazioni, tra cui alcune personali e familiari, ho deciso di ritornare. Anche perché penso che non è vero che noi italiani dobbiamo sempre andare all’estero per fare buona ricerca. Credo che questo sia un dogma che va sfatato, senza nulla togliere all’importanza di un’esperienza all’estero che è fondamentale per la formazione del ricercatore.

Quindi la sua è stata una scelta convinta?

Fermamente convinta! Ma ammiro molto i colleghi che invece dopo il dottorato fanno il loro periodo all’estero e poi rimangono. Ma allo stesso tempo penso che debba essere dato un valore a chi ha il coraggio di rimanere in Italia e cerca di fare ricerca nel migliore dei modi.

Quali sono le principali differenze tra la ricerca all’estero e in Italia?


Da noi il percorso è più difficile perché ci sono una serie di criticità come gli step burocratici e un percorso che è un po’ forzato con dottorato, assegni di ricerca, borse di studio, contratti precari che nel tempo possono portare ad avere poi una posizione fissa e stabile nel mondo accademico.
All’estero ci sono forse più possibilità, grazie a un maggiore investimento nella ricerca che permettono spesso in tempi più brevi rispetto all’Italia, di raggiungere una posizione stabile, quindi di avere un proprio laboratorio di ricerca ad avere dei fondi per portare avanti la ricerca. E in più, anche se oggi molti laboratori italiani sono allo stesso livello, spesso i laboratori all’estero sono più avanzati dal punto di vista tecnologico. Quando ho fatto il dottorato io sicuramente c’era più disparità, oggi diciamo che ci stiamo avvicinando. Parlo ovviamente sempre rispetto alla mia esperienza e al contesto che ho avuto modo di osservare più da vicino.

Parliamo della sua ricerca, con che studio ha vinto il Premio EWMD?

Questo studio di ricerca mette in luce un nuovo meccanismo con cui agisce una piccola molecola che è in realtà un metabolita endogeno prodotto dalle nostre cellule stesse che si chiama N-acetilserotonina, nota anche come Nas. Noi mettiamo in evidenza la sua capacità di attivare e potenziare le funzioni di una proteina che è un enzima che ha la proprietà di regolare le risposte immunitarie.
Quindi se in alcune patologie autoimmuni questa proteina non funziona correttamente, si ha una maggiore predisposizione a sviluppare queste patologie.
Noi abbiamo in mano una molecola che riesce a ripristinare e a correggere il difetto di questa proteina e a ripristinare le sue funzioni. E quindi col tempo possiamo trovare delle molecole che offrano un’alternativa terapeutica agli attuali farmaci utilizzati nel trattamento di queste patologie autoimmuni.

Ad esempio la sclerosi multipla?

La patologia autoimmune che noi abbiamo studiato e preso come modello sperimentale è proprio la sclerosi multipla, perché c’erano dei presupposti scientifici promettenti che ci hanno permesso di studiare questa molecola in questa malattia, che è una patologia per la quale esistono dei farmaci che non sono però farmaci curativi. Possono in alcuni casi migliorare l’aspettativa e la qualità di vita dei pazienti, ma in altre circostanze i pazienti non riescono a rispondere in maniera corretta a questi farmaci o sviluppano una serie di effetti collaterali che alle volte superano il beneficio del farmaco stesso.
Con questa molecola mettiamo in evidenza un nuovo meccanismo con cui possiamo trattare questi pazienti.

Non abbiamo trovato il farmaco per la sclerosi multipla, ma abbiamo aperto una strada verso il disegno di farmaci che possano sfruttare questo meccanismo che finora non era stato mai studiato nella sclerosi multipla e quindi offre opportunità non tanto nel mondo accademico dove sviluppare farmaci è molto complicato ma per aziende del settore eventualmente interessate a creare questi nuovi farmaci.

E quale sarebbe quindi il prossimo passaggio da fare?

Il prossimo passaggio, in realtà, era già stato in parte avviato dalla professoressa Ursula Grohmann, ordinaria di farmacologia che era la coordinatrice di questo studio ma che purtroppo è scomparsa nel febbraio di quest’anno.
Lei aveva avviato un percorso di avvicinamento dell’Università alle aziende farmaceutiche, anche attraverso dei finanziamenti europei, con lo scopo di uno sviluppo reale di questi nuovi farmaci.
Un passaggio che dopo la sua scomparsa ora è in mano a noi.

È impossibile prevedere entro quando avremo il farmaco?

È impossibile, perché poi la ricerca, come la vita, è piena di imprevisti.

L’obiettivo del premio e del TIWS è anche quello di avvicinare ragazze e studentesse alle professioni cosiddette Stem. Vorrei capire dal suo punto di vista quali sono le difficoltà oggi, perché le ragazze, si avvicinano di meno a questi campi, sia in ambito professionale che nella parte che riguarda gli studi.

Perché è molto challenging per una donna, soprattutto per quel che riguarda il bilanciamento tra la vita personale e la vita professionale.
Alcune ottime ricercatrici che hanno idee innovative magari decidono di sospendere la propria attività di ricerca perché vogliono dedicarsi alla famiglia con la conseguenza che le donne rivestono posizioni sempre meno apicali in questo ambiente.
Nel laboratorio dove lavoro io in realtà siamo più donne che uomini, e in generale è molto frequente trovare lavoratori dove gli uomini sono magari il 2% di uomini poi però chi è al comando sono sempre più uomini.

Forse perché gli uomini hanno più possibilità di dedicarsi alla vita professionale e meno ad altri aspetti e quindi possono raggiungere livelli più alti.
Ma ciò non toglie che ci siano scienziate e ricercatrici eccellenti che riescono a equilibrare entrambe le parti della vita e anche a ricoprire le posizioni più importanti di questo ambito.

C’è chi dice che manchino anche dei modelli di riferimento per le ragazze. Lei quando ha iniziato che modelli aveva?

I miei modelli sono le persone che mi hanno circondato in questo percorso di ricerca, i miei colleghi e le mie colleghe del laboratorio dove ho svolto la tesi sperimentale prima e dove ho fatto il dottorato e dove ho intrapreso poi la mia carriera di ricerca nonostante la pausa all’estero. Quindi i modelli sono di fatto le persone che sono lì: la ricercatrice o professoressa in grado di dedicarsi alla famiglia e a portare avanti allo stesso tempo una ricerca ottima, o gli ordinari come la professoressa Grohmann che per me è stata un mentore o la professoressa Pallarino che mi ha seguita durante la fase sperimentale, sono stati e sono tuttora, tutti degli esempi.

Cosa ti senti di consigliare a una giovane studentessa che esce dalle superiori e vuole intraprendere la tua stessa carriera o comunque una carriera nelle professioni Stem che dicevamo prima?

Può sembrare banale, ma uno deve seguire, soprattutto all’inizio, la propria passione. Solo così sarà sicuro di fare quella cosa nel migliore dei modi.
Nella mia attività di docente universitario mi trovo spesso a parlare con studenti e studentesse alla fine del loro percorso di studi che mi chiedono quali sono gli ambiti in cui sarà più facile trovare lavoro. Io rispondo sempre che questo è il momento di seguire quello che più gli riesce meglio e che più li appassiona perché poi non ci sarà tempo per fare questo. Il lavoro viene dopo e viene di conseguenza, perché se si ha la passione poi si fa tutto con molta più attenzione, entusiasmo e meno pesantezza.
Quindi il consiglio è scegliere la propria passione, indipendentemente da come ci si proietta poi nel mondo del lavoro. Perché poi uno si aggiusta nel tempo con quello che succede nella vita.

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