Workers buyout, così i lavoratori possono salvare le imprese in crisi
Imprese in crisi, che rischiano il fallimento, salvate dai loro stessi lavoratori. Sono i Wbo, acronimo di workers buyout, una modalità con la quale i dipendenti si impegnano a salvare la propria azienda per evitare che fallisca.
E, per farlo, si associano in una cooperativa. In Italia, sono state oltre 350 le imprese recuperate grazie al workers buyout, con più di 15mila posti di lavoro salvati.
“I lavoratori trasformano una società di capitali in cooperativa, e da dipendenti diventano soci, imprenditori di se stessi”, spiega Stefania Pacchi, professoressa dell’università di Siena e cofondatrice dell’Associazione Osservatorio Internazionale sul debito, a Change-Makers.
“Il workers buyout si inquadra all’interno del fenomeno del buyout, uno strumento che troviamo anche in altri settori: esiste il management buyout (i manager che acquistano l’impresa), il laveraged buyout (i finanziatori che acquistano per poi rivendere), la family buyout (quando c’è un acquisto interno alla famiglia). È uno strumento per dare continuità all’impresa, particolarmente importante in questo momento di pandemia”.
I lavoratori trasformano una società di capitali in cooperativa, e da dipendenti diventano soci.
Attraverso il workers buyout, i lavoratori creano un’alternativa occupazionale, salvaguardano il know how acquisito e garantiscono la continuazione dell’attività e la valorizzazione degli asset aziendali. Molte volte, poi, vanno a tutelare una produzione tipica, che altrimenti andrebbe perduta, oppure assicurano in un’area geografica la permanenza di un’impresa che tradizionalmente appartiene a un certo territorio.
Sottrarre imprese alla criminalità organizzata: il Centro Olimpo di Palermo
Da qualche anno, il workers buyout rappresenta anche un’opportunità per salvare imprese confiscate alla criminalità organizzata. Un importante esempio è il Centro Olimpo di Palermo, che nel 2014 è stato rilevato da 34 lavoratori, con l’aiuto della Cgil e di Legacoop, dopo che la società di gestione era stata sottoposta a provvedimento di sequestro. Una scommessa non facile da vincere, in un territorio dove gli interessi della mafia sono ancora così forti, e dopo che il punto vendita era rimasto chiuso due anni.
“Alegroup spa, la società che gestiva il Centro Olimpo, nel 2012 è stata confiscata per mafia, per reati come favoreggiamento e riciclaggio”, spiega Gaetano Salpietro, presidente della cooperativa Progetto Olimpo.
“Solo a Palermo c’erano oltre 150 dipendenti: era un superstore innovativo, in un’area nuova. Inizialmente viene venduto a un imprenditore locale di Palermo, che però non aveva intenzione di rispettare i diritti dei lavoratori. Dopo 5 mesi, licenzia tutti e cerca di tenersi il sito. Cosa facciamo allora noi lavoratori? Iniziamo a costituire un gruppo, strutturare un progetto e fondare una cooperativa. Sapevamo che le consorterie che governano la città in questo settore erano pronte a toglierci il sito produttivo. C’erano già uno scenario prefigurato, si sapeva chi doveva venire qui, quale marchio, quale associato… L’unico modo era renderci solidi ed evitare che arrivassero gli interessi forti a scompaginarci”.
Dal 2015 a oggi il Centro Olimpo ha quasi raddoppiato il fatturato, che è arrivato a 14 milioni di euro l’anno. Attualmente la cooperativa ha 59 lavoratori, di cui 27 dipendenti e 32 soci. “La cooperativa significa soprattutto partecipazione. Gli organi sono eletti democraticamente, ci sono le assemblee, c’è la discussione… Fare un lavoro che tu conosci, e farlo da cooperatore, è molto gratificante, perché quello che fai non lo fai per qualcun altro, lo fai per tutti e per te stesso”.
Un workers buyout che innova il settore dell’editoria: la Legatoria Zanardi
E poi ci sono i workers buyout che si sperimentano in settori considerati molto a rischio, perché più colpiti dalla crisi economica dovuta anche alla digitalizzazione che sta mutando la nostra società. A Padova, la cooperativa Lavoratori Zanardi ha rilevato un’azienda storica di Padova, nata negli anni ’60, e ha permesso di salvaguardare competenze che altrimenti sarebbero andate perdute.
“Alla fine del 2013, la Legatoria Zanardi è stata messa in cordato”, racconta il presidente della cooperativa, Mario Grillo.
“C’erano 105 dipendenti, per un fatturato annuo di 12 milioni di euro. La situazione debitoria era molto pesante e nessuno voleva prendere il rischio di rilevare l’azienda. Così, tra i lavoratori è iniziata una riflessione su come si sarebbe potuto andare avanti: c’erano molte persone orgogliose del loro mestiere e desiderose di non buttarlo nel cestino”.
Legacoop Veneto ha aiutato i lavoratori a strutturare un percorso, insieme ai sindacati e alla Provincia, e dopo vari incontri a inizio novembre 2014 è nata la cooperativa, con 21 soci.
“Il 2015 è stato l’anno più delicato, avevamo difficoltà economiche e non sapevamo come andare avanti”, continua Grillo. “Un giorno, ci è arrivata la proposta di realizzare album di figurine per un milione di euro. Lavorando tanto, potevamo farne 40 mila al giorno. È stato un momento di svolta: nella difficoltà le persone hanno dato il meglio di sé. Da lì in poi abbiamo cercato di riprendere i vecchi clienti e riproporci sul mercato”.
La cooperativa significa soprattutto partecipazione.
Il 2020 è stato un anno molto importante: durante la pandemia, i lavoratori Zanardi hanno deciso che dovevano fare un nuovo salto di qualità.
Il primo passo è stato l’investimento importante in una nuova linea di intessitura dei mobili, e poi si è investito su un processo di digitalizzazione dell’impresa, che permette di tracciare tutto il processo, e far sì che il cliente si senta dentro alla fabbrica e controlli il risultato della lavorazione anche senza essere presente fisicamente.
E poi c’è il mercato dei formati libro proprietari: “Usiamo ancora un brevetto che si chiama Optalus, una forma libro particolare che va benissimo per fare la guida dei musei o delle città”, continua Mario Grillo. “E poi abbiamo rivitalizzato un vecchio brevetto della Zanardi, il Broken, un libro che si apre in tante pieghe e diventa a fisarmonica, che viene utilizzato nei libri per bambini, per far vedere la storia che si dipana. Infine, nel 2019 abbiamo fatto anche una nuova forma libro che si chiama Oblò, che ha un buco al centro delle pagine da cui si può vedere dentro il contenuto”.
Quest’anno la cooperativa chiuderà con 4 milioni e mezzo di fatturato, e 47 lavoratori, di cui 42 soci. “Quello che ci portiamo a casa è l’orgoglio di essere riusciti a salvare una competenza che altrimenti sarebbe andata dispersa”, conclude Grillo.
“La strada è ancora lunga, ma nel frattempo possiamo dire che siamo riusciti a mantenere in Italia un saper fare tradizionale: la strada della delocalizzazione non fa sviluppare le aziende, spesso le impoverisce. Il nostro è un gesto politico, un’ecologia delle persone”.
La legge Marcora e le basi giuridiche del workers buyout
Ma quali sono le radici dei workers buyout? In Italia la storia inizia nel 1985 con la legge 49, detta anche “legge Marcora”, che istituzionalizza i workers buyout e mette a disposizione strumenti finanziari per supportarli.
Siamo in piena crisi petrolifera: molte imprese sono in crisi e rischiano di chiudere. La legge allora promuove la nascita di cooperative da parte di lavoratori licenziati, cassaintegrati, o dipendenti di aziende in crisi o già in procedure concorsuali di fallimento.
Come? Attraverso la creazione di un Fondo di rotazione per il finanziamento di progetti presentati da cooperative, gestito principalmente da Cooperazione Finanza e Impresa (CFI), società cooperativa partecipata e vigilata dal Ministero dello sviluppo economico.
Nonché attraverso l’istituzione di un Fondo statale speciale per gli interventi a salvaguardia dei livelli occupazionali, tramite l’assunzione da parte dei lavoratori di opportune iniziative imprenditoriali in forma cooperativa.
Quello che ci portiamo a casa è l’orgoglio di essere riusciti a salvare una competenza che altrimenti sarebbe andata dispersa
“Quando un’impresa è in crisi e rischia il fallimento, il curatore deve cercare prioritariamente di cedere unitariamente il complesso aziendale, per assicurare una continuità”, spiega la professoressa Stefania Pacchi.
“Ecco allora che i lavoratori possono entrare nel processo, acquistando il complesso produttivo.
Questa entrata potrebbe essere anche preceduta da un affitto d’azienda, nel quale i lavoratori possono sperimentare la propria capacità di gestire l’impresa, e assicurarsi un diritto di prelazione nel suo acquisto.
La valutazione del complesso aziendale è fondamentale: i lavoratori non possono rischiare di fare un flop, dunque è necessario verificare se quella particolare attività può prevedere un futuro a quell’impresa”.
Alla fine degli anni ’90 il quadro normativo della legge Marcora viene temporaneamente sospeso, a causa di una celebre pronuncia dell’Ue secondo cui quella norma viola le regole di concorrenza.
Così, nel 2001 arriva la riforma della legge Marcora: l’articolo 7 limita il finanziamento di un Wbo da parte dello Stato, mettendo come limite per il finanziamento il raddoppio del capitale iniziale
Tale finanziamento deve essere restituito dai dipendenti entro un periodo di 7-10 anni. Inoltre, consente ai Wbo di avere un socio finanziatore membro della cooperativa per l’intera durata dell’investimento.
Infine, lo stato mette a disposizione un Fondo speciale per la salvaguardia dei livelli occupazionali.
Infine, la normativa oggi prevede che nella cooperativa possa rimanere una parte della proprietà precedente, per assistere i lavoratori nella conduzione di quella attività, acquisendo competenze gestionali.
Il panorama internazionale: i Wbo in Argentina
Se in Italia il workers buyout ha un’origine concertata con le istituzioni, in altri Paesi i Wbo si realizzano attraverso dinamiche molto più conflittuali. L’esempio per eccellenza è quello dell’Argentina, dove dalla crisi del 2001 è esploso il fenomeno delle Empresas recuperadas por sus trabajadores (imprese rilevate dai lavoratori): i lavoratori occupavano lo stabilimento e proseguivano la produzione, senza alcuna trattativa con i precedenti proprietari.
Parliamo ad esempio della impresa di ceramica Zanon a Neuquen, in Patagonia, o dell’hotel Bauen a Buenos Aires.
“All’origine dell’esperienza argentina c’è un conflitto tra il diritto al lavoro e al sostentamento da un lato, e il diritto di proprietà dall’altro”, continua Stefania Pacchi.
“All’inizio degli anni 2000, il fenomeno si è propagato in tutta l’America Latina, con l’occupazione di aziende e di imprese fallite da parte dei lavoratori, che continuavano la gestione contrastando la stessa procedura concorsuale che si era aperta, ma senza un titolo che avesse trasferito la proprietà dei beni, con conseguente onere di soddisfare i creditori. Non c’era insomma un’autorizzazione giudiziale che avesse autorizzato la prosecuzione dell’attività”.
La costituzione della cooperativa, insomma, non avveniva prima, ma dopo aver occupato l’azienda e gestito politicamente l’impresa.
Oggi, però, per regolamentare queste esperienze il governo argentino ha promulgato una legge ad hoc, creando il titolo di soggetti esproprianti, per conferire loro il titolo di proprietà.
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