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Femminismo dei dati: il gap di genere nascosto nelle statistiche

Si può misurare oggettivamente un fenomeno? I dati sono davvero neutri? Come scardinare le discriminazioni di genere insite nelle nostre statistiche? Da queste domande è partita la riflessione nel workshop “Femminismo dei dati. Perché abbiamo bisogno di un approccio femminista all’intelligenza artificiale”, condotto dalle attiviste dell’associazione Period Think Tank insieme alla ricercatrice Jasephine Condemi e alla giornalista esperta di dati Donata Columbro durante la tre giorni Reclaim The Tech, il festival su diritti digitali e giustizia sociale che si è tenuto a Bologna dal 5 al 7 maggio.

L’incontro ha analizzato il concetto di dato e di controdato: il dato è un’informazione, che va prima rilevata (osservata e registrata) e poi misurata (contata). Il punto è: chi produce i dati sulla società? Come li rileva? Con quali obiettivi? Il dato non è neutro: incorpora significati, prospettive e priorità. Nascono così i controdati: informazioni raccolte dal basso, su iniziativa di singoli o associazioni, che spesso permettono di dare visibilità a discriminazioni e ingiustizie.

Per misurare il gap di genere, applichiamo uno sguardo femminista ai dati

“Quante donne subiscono molestie all’interno delle università? Quante donne povere e madri sole hanno accesso a case popolari?
Quante accettano part-time forzati? Questi dati non esistono, perché nessuno li ha mai rilevati”, spiega Giuditta Bellosi di Period Think Tank. “Ecco perché è molto importante iniziare a parlare di dati di genere, che permettono a donne, adolescenti e bambini di essere visibili nelle statistiche, le basi per orientare le politiche”.

Alcuni esempi: l’organizzazione Non Una Di Meno, dal basso, ha dato vita all’Osservatorio sui femminicidi, lesbicidi e transcidi in Italia, che l’8 di ogni mese aggiorna i dati: l’archivio parte dal 2020 e mette insieme documenti, grafici, approfondimenti e riflessioni. Mentre le attiviste di Obiezione respinta mappano gli obiettori di coscienza in Italia, per mostrare quanto sia effettivamente rispettato il diritto all’aborto.

“Oggi c’è un gap di dati di genere”, continua Dylan Tartarini di Period Think Tank. “Mancano dati aperti, trasparenti e disaggregati per genere, il che fa sì che alcune categorie vengano invisibilizzate e che non emergano le disuguaglianze. Ecco perché è importante applicare uno sguardo femminista ai dati: rendere espliciti i concetti e le definizioni sulla base di cui i dati si raccolgono; disaggregare i dati in base al genere e con ottica intersezionale; chiedere nuovi dati sulla base di categorie nuove, con attenzione ai gruppi fragili; fare nuove analisi per far emergere le disparità e le discriminazioni”.

Period Think Tank nasce proprio per richiedere e cercare dati di genere, e supportare le pubbliche amministrazioni ad usarli per realizzare politiche finalizzate all’eliminazione delle disuguaglianze. Senza dati, infatti, non è possibile monitorare l’impatto di genere delle politiche pubbliche. Da questa consapevolezza nasce la campagna #datipercontare, che ha lo scopo di chiedere a tutte le istituzioni, a partire dai comuni, di raccogliere e disaggregare per genere i dati necessari a costruire una valutazione di impatto più “democratica”. Ad oggi hanno aderito i comuni di Bologna, Palermo, Milano, Ravenna, Imola e Cento.

Non tutto ciò che conta può essere contato

Ci sono cose che si possono misurare e altre che sfuggono. Cosa resta fuori dai dati? “Non tutto ciò che conta può essere contato”, spiega la ricercatrice e giornalista Josephine Condemi. “Siamo sempre più abituati a interagire con degli schermi, dove ci sono dei corpi icona, dei corpi avatar. Ma quando togliamo gli occhi dallo schermo, cosa vediamo? I corpi materiali, i corpi reali delle persone. Che non possono essere ridotti a un semplice insieme di dati”.

Il corpo è irriducibile, non si può trasformare in un codice: c’è tutta una sfera che sfugge alle misurazioni, e che ha a che fare con il linguaggio del corpo. Gli algoritmi tendono a classificare, gerarchizzare, cristallizzare, fanno fatica ad adattarsi a contesti che cambiano: il corpo è un contesto mutevole per eccellenza.

“I corpi contano, il femminismo l’ha sempre saputo”, continua Condemi. “Storicamente, per la donna esporre il corpo pubblicamente è stato sempre un problema: pensiamo a cosa significa andare in giro da sola di notte, o scendere in piazza per manifestare. Riappropriarsi del proprio corpo diventa allora un atto politico: è un simbolo del diritto a una vita senza violenza. Ecco perché, per fare femminismo dei dati, è sì importante inserire nuove categorie, ma bisogna anche uscire dal meccanismo dell’algoritmo, per ritornare al corpo”.

I dati sono costrutti sociali

Le società di oggi affidano ai dati il compito di misurare e fotografare fenomeni, tendenze, cambiamenti. Eppure, l’idea che i dati siano infallibili è pericolosa. “Oggi si parla molto dell’importanza dei big data”, racconta la giornalista esperta di dati Donata Columbro. “Attenzione però: molti dati significa anche molti errori, molte imprecisioni. Non necessariamente i big data rivelano la verità”.

I dati sono ovunque, ma come vengono raccolti? E perché? “Dietro i dati c’è sempre una scelta: i dati sono costrutti sociali”, spiega Columbro. “Il dato non è generato da macchine, ma da noi esseri umani. Anche chi elabora le statistiche ha le sue opinioni, e con i dati si può mentire: ecco perché è importante chiedersi sempre cosa c’è dentro ogni numero, com’è stato calcolato”.

Se i dati sono parziali, anche gli algoritmi (che su quei dati si basano) saranno imperfetti: pensiamo ai software di riconoscimento facciale, che funzionano peggio con le donne nere, perché si basano su database parziali. Ma i dati possono discriminare anche quando non vengono raccolti: sono tanti gli ambiti in cui mancano dati. Ad esempio, non ci sono numeri precisi su quante siano le persone disabili in Italia. O su quali siano i costi nascosti dell’allattamento al seno.

La credenza di poter rappresentare oggettivamente un fenomeno è pericolosa”, conclude Columbro. “Non ci sono persone che sanno come si maneggiano i dati e altre no, non esistono esperti che custodiscono la verità. Cosa succederà allora quando, in futuro, saranno gli algoritmi a narrare le storie per noi, e quegli algoritmi si baseranno su dati che discriminano? Dobbiamo creare una nuova cultura dei dati, per far sì che tutti e tutte ne abbiano accesso e ne siano pienamente rappresentati”.

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