A Bologna “Geco Community” dà una risposta alla povertà energetica dei quartieri popolari
Non ci può essere neutralità climatica senza smart cities, e non ci possono essere smart cities senza comunità energetiche. Le parole d’ordine? Autoproduzione dal basso, lotta alla povertà energetica, consumer empowerment.
Per diventare tutti, contemporaneamente, produttori e consumatori di energia.
A Bologna, tutto questo diventa realtà grazie al progetto Geco, la comunità energetica in sperimentazione nel quartiere Pilastro-Roveri. Un’area in cui si concentrano edifici residenziali (circa 7.500 abitanti, di cui 1.400 in alloggi sociali), complessi commerciali (i centri commerciali Pilastro e Meraville, il Caab e Fico Eataly) e centri di produzione industriale ed artigianale, prevalentemente concentrati nella zona Roveri.
L’obiettivo è quello di ridurre i costi dell’elettricità per l’edilizia popolare, autoproducendo energia e mettendo in rete la parte industriale, commerciale e residenziale.
Un progetto che vede la collaborazione tra Aess – Agenzia per l’energia e lo sviluppo sostenibile, che è capofila del progetto, Enea – Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, e l’Università di Bologna.
Come produrre l’energia che serve? Con 31 milioni di euro di investimento il Caab, il Centro Agroalimentare di Bologna, ha quasi ultimato l’impianto fotovoltaico più grande d’Europa su un tetto: 110 mila metri quadri. Quello sarà il cuore “pulsante” di tutto il progetto Geco. Si partirà da lì.
Ci sarà poi un potenziamento attraverso altri 20 mila metri quadrati di pannelli fotovoltaici, per una superficie totale di 130 mila metri quadrati.
Questo servirà a coprire il fabbisogno energetico di mille famiglie per un anno intero.
Anche delle famiglie che vivono nelle case popolari e che versano in una condizione di povertà energetica, cioè quella condizione di povertà economica che impedisce, ad esempio, di riscaldarsi adeguatamente in inverno o di godere di temperature adeguate nella canicola estiva. Una condizione tipica di alcuni strati di popolazione che alloggiano negli appartamenti pubblici.
Il coinvolgimento delle comunità
“Le comunità energetiche possono diventare un pilastro dello sviluppo sociale, perché mettono insieme il concetto di sostenibilità con l’idea di comunità locale”, afferma Nicola Gessa, ricercatore di Enea e membro del team che lavora sul progetto Geco.
La transizione energetica, infatti, richiede un approccio collaborativo e interdisciplinare, lavorando in sinergia con le imprese, i cittadini e le istituzioni.
Nodi centrali sono proprio l’educazione, il coinvolgimento e la comunicazione delle fasi del progetto, per arrivare a una partecipazione attiva della comunità per ridurre insieme i consumi. La cittadinanza attiva può infatti diventare una risorsa preziosa per la transizione ecologica.
L’obiettivo è quello di ridurre i costi dell’elettricità per l’edilizia popolare, autoproducendo energia e mettendo in rete la parte industriale, commerciale e residenziale.
È quello che fa anche Geco, dove i membri della comunità, oltre a consumare ciò di cui hanno bisogno, potranno immettere in una rete locale l’energia in esubero per scambiarla con gli altri componenti o, altrimenti, accumularla e restituirla alle unità di consumo nel momento più opportuno.
La tecnologia sarà al servizio del cambiamento: per ottimizzare il consumo di energia, Enea e Unibo stanno sviluppando una app che permette di monitorare i dati su produzione e consumi energetici.
La sfida legale
Il progetto Geco è concepito nella scia del pacchetto legislativo “Energia pulita per i cittadini europei”, in cui l’Unione Europea ha introdotto la revisione delle direttive europee che mirano alla promozione delle fonti rinnovabili e la regolamentazione del mercato interno di elettricità.
In Italia, la legge 8 del 2020 ha reso operativa la direttiva e ha normato la produzione di energia elettrica da impianti alimentati da fonti rinnovabili e la sua condivisione tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione.
Il 30 novembre di quest’anno, poi, è stata promulgato il provvedimento che dà le disposizioni per attuare le misure del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza): si tratta del nuovo decreto legislativo 199, che recepisce la normativa europea sulle energie rinnovabili e anche sulle comunità energetiche.
“Il cambiamento fondamentale è che passiamo da piccole comunità energetiche (sotto i 200 kilowatt) a comunità che possono arrivare fino a 1 megawatt”, spiega Claudia Carani di Aess, coordinatrice del progetto.
“Si passa da una cabina media/bassa a una cabina primaria. E gli impianti ammessi non sono più solo quelli installati dopo il primo marzo 2020, ma anche gli impianti esistenti per un 30%. A breve, inoltre verranno definiti nuovi incentivi: se la quota di autoconsumo è superiore al 55%, l’incentivo è più interessante”.
Quali tipi di comunità energetiche?
Esistono diversi tipi di configurazioni delle comunità energetiche: innanzitutto c’è l’autoconsumo diretto, in cui un singolo cittadino installa pannelli fotovoltaici, produce energia per sé stesso, se ne ha di più la vende, se ne ha di meno la compra dalla rete di energia. E poi c’è l’autoconsumo collettivo, ad esempio in un condominio dove ci sono diverse famiglie che si mettono insieme per produrre energia. Infine, le comunità energetica vera e propria, fatte da case, aziende, negozi, servizi pubblici, che hanno differenti necessità e differenti capacità di produzione dell’energia.
Nodi centrali sono l’educazione, il coinvolgimento e la comunicazione delle fasi del progetto, per arrivare a una partecipazione attiva della comunità.
Il ciclo di vita di una comunità energetica è composto principalmente da tre fasi: una prima fase di analisi di fattibilità economica e progettazione tecnica; poi una fase implementativa e di gestione, in cui il singolo cittadino attraverso una app può analizzare i dati e automatizzare alcune fasi di gestione della casa, ma anche l’amministratore può avere accesso ai dati, questa volta in merito alla comunità tutta; infine, una fase di valorizzazione e networking con altre realtà.
Il Caab e l’impegno sulla sostenibilità
Nel 2020 il Caab, il Centro agroalimentare di Bologna che fa parte della comunità energetica Geco, ha prodotto 1.485.677 kilowatt/ora di energia da fonti rinnovabili, pari a un valore di 92.943 euro, che ha concesso di risparmiare l’emissione di 743 tonnellate di Co2 ed evitare la produzione di 223 kg di Pm10.
Lo rivela il report sostenibilità 2020 del Caab: con l’energia prodotta si sarebbe potuto alimentare uno stadio per 57 partite di calcio o sostenere le necessità energetiche di oltre 700 famiglie per un intero anno.
Così, l’energia non è più una voce di costo, bensì un ricavo: si è passati da spendere 500 mila euro all’anno nel 2010, a guadagnarne 250 mila nel 2020.
Nel 2022 il Caab si doterà anche di un biodigestore, impianto alimentato da biogas prodotto dagli scarti organici del mercato ortofrutticolo, grazie al quale si prevede una produzione di circa 20 kilowatt elettrici e 30 kilowatt termici.
L’azione, però, non si concentra solo sul settore dell’energia, ma anche su politiche innovative sui rifiuti: nel 2020, al Caab la raccolta differenziata ha raggiunto l’83%, con 1.660.200 chili di rifiuti differenziati, mentre la campagna di sensibilizzazione sullo spreco alimentare ha permesso di donare circa 2.345 quintali di ortofrutta ad associazioni del terzo settore.