New York. I taxisti che hanno fatto l’impresa (cooperativa)
A New York un gruppo di taxisti ha lanciato la sfida a Uber e alle altre grandi piattaforme che negli ultimi anni hanno invaso il mercato dei trasporti cittadini. Una rivoluzione, quella di Uber, Lyft e le altre, che ha moltiplicato il numero di taxi, ma ha creato nello stesso tempo una classe di lavoratori ipersfruttati, senza diritti e controllati da anonime app e algoritmi che decidono tutto: quando gli autisti possono connettersi (cioè lavorare), dove devono andare, quanto guadagneranno e se e quanto potranno guidare ancora.
Da maggio 2020 il quadro a New York è cambiato: alle auto di Uber si sono affiancati i taxisti di Drivers Cooperative, persone che hanno deciso di auto organizzarsi e per farlo hanno scelto la forma cooperativa.
“Non serve sfruttare le persone per sopravvivere come business”, spiega a Change-Makers.cloud il loro presidente Erik Forman. E così a New York è ora possibile avere un servizio flessibili e competitivo, e che nello stesso tempo non sfrutta i lavoratori ma anzi, dà ai taxisti le chiavi non solo della loro auto, ma direttamente del loro lavoro. Si può fare. Quasi 3800 autisti si sono già associati, e ora possono guidare, eleggere i loro manager, decidere in assemblea su tutti gli aspetti del lavoro e beneficiare degli utili, redistribuiti alla fine dell’anno a seconda delle ore di lavoro di ognuno.
Una raccolta fondi per accendere i motori
“Ho fatto per anni il sindacalista, prima a Starbucks e poi nel mondo del delivery. Il grande sogno di tutti è sempre stato non quello di iscriversi ad un sindacato, ma quello di controllare le proprie vite”, dice Erik Forman. A New York il sogno di Forman e dei suoi colleghi è divento realtà grazie ad una raccolta fondi di 300 mila dollari, garantita per due terzi da fondi specializzati nel sostenere piccoli business, cooperative (è il caso dello Shared Capital Cooperative) e associazioni noprofit, più un accelerator program per cooperative chiamato Start.coop.
Quel primo sostanzioso prestito ha dato le gambe al progetto, poi è arrivata una seconda raccolta aperta anche al grande pubblico: al momento sono stati raccolti 1 milione e 300 mila dollari. Non donazioni ma prestiti: la cooperativa ha garantito a chi ha investito una piccola quota dei guadagni futuri (l’interesse è del 2,5% per quadrimestre, con l’obbligo di non vendere i propri titoli nei primi tre anni), ma lasciando le redini della cooperativa ai lavoratori, spesso loro stessi investitori.
Funzionerà? Sta già funzionando. A New York ogni giorno ci sono 400 mila persone che chiamano il taxi. A Drivers Cooperative per arrivare al pareggio ne basta intercettare circa 1300. Per farlo i taxisti hanno sviluppato un’app, Co-op Ride, semplice, funzionale e geolocalizzata. L’applicazione, sviluppata per cellulari Android e Ios, a breve saprà dialogare con app di altre cooperative di taxisti, negli Usa ma non solo.
Drivers Cooperative ha stretto un’alleanza con la cooperativa bolognese CoTaBo per creare un network globale capace di costruire nel tempo un’alternativa alle grandi piattaforme, che basano il loro funzionamento sull’intermediazione della manodopera e sulla capacità di estrarre profitti dal lavoro dei tanti autisti per convogliargli, grazie ad un’app proprietaria, verso grandi fondi di investimento.
Le cose a New York stanno cambiando, e se ne sono accorti in tanti. Alexandria Ocasio-Cortez, star della sinistra democratica statunitense, ha deciso di sostenere politicamente Drivers Cooperative, e la consiglia attivamente sui social.
Drivers Cooperative pensa in grande. Ancora pochi mesi e poi sarà possibile prendere un taxi a Bologna e a New York con la stessa app. Ma i taxisti di New York hanno preso contatti con le altre piccole cooperative di trasporto presenti negli Usa. A Madison, nel Wisconsin. A Denver, in Colorado, e ancora in Oregon. “Sono in tanti a chiederci come abbiamo fatto e a volerlo rifare nella loro città. Noi crediamo che sia possibile battere Uber e restare economicamente sostenibili”, dice Forman.
Battere Uber: un’impresa possibile
Battere Uber a New York per Drivers Cooperative significa garantire ai taxisti un profitto su ogni corsa maggiore in media del 13%, e chiedere ai soci della cooperativa una commissione complessiva per viaggio molto inferiore a Uber. I conti sono presto fatti: Uber (e gli altri suoi competitor) chiede una commissione di almeno il 25%, la cooperativa non supera mai il 15%, e con quei soldi finanzia una serie di servizi utili ai tutti i guidatori, compresa la stipula di finanziamenti vantaggiosi per l’acquisto di una nuova auto.
Non una cosa da dare per scontato visto che la metà dei profitti se ne va tipicamente in spese legate al mezzo e che il 90% dei taxisti sono immigrati che non possono fornire garanzie alle banche, e che proprio per questo finiscono per pagare rate molto più alte.
A gestire la parte economica della Drivers Cooperative di New York è Alissa Orlando, manager che in passato ha lavorato proprio per Uber, occupandosi dell’Africa dell’est. Un mercato in espansione e proprio per questo di interesse per le grandi piattaforme digitali della Silicon Valley.
Perché Alissa Orlando ha lasciato Uber? “Potevo essere un ingranaggio all’interno di una grande azienda che prima promette agli autisti libertà e poi invece li tradisce asservendoli ai grandi investitori multimiliardari – spiega a Change-Makers.cloud la manager – Invece ho deciso di costruire un’organizzazione che mettesse in discussione tutto. Non tornerei mai ad Uber e penso che dovremmo iniziare ad equiparare la moderna ‘gig economy’ alle aziende del tabacco, e cioè dannose per la società”.
Perché è questo quel che è successo, in Africa così come negli Usa. Dovunque Uber è sbarcato ha prima “aperto” il mercato, iniettando flessibilità e la possibilità per gli autisti, non dipendenti ma contractors, di “entrare” e “uscire” in autonomia dai turni di lavoro. Una volta guadagnata una fetta importante di mercato ed essere diventato indispensabile, Uber ha fatto funzionare i suoi algoritmi in direzione dei profitti. Le corse sono state remunerate sempre di meno, hanno raccontato ex dipendenti, mentre l’app ha iniziato ha disconnettere maggiormente chi non rispettava regole e ritmi imposti, e così molti autisti si sono ritrovati intrappolati tra una paga variabile decisa da un algoritmo e le rate dell’auto da pagare.
Michael Ugwu è un taxista che ha lavorato per Uber e Lyft, conosce bene le due piattaforme e ha deciso di passare a Drivers Coooperative: “A Uber e Lyft non interessa di te come persone, gli interessano i soldi che possono fare con te. Quando lavori con loro non lo fai da dipendente, ma da conctractors esterno. Ma come si fa a pretendere una cosa del genere se sono loro a determinare tutta la tua vita?“.
“Pagare gli autisti di più e chiedere loro di meno, non ci vuole una matematica complicata per farlo”, spiega ancora Forman. Com’è possibile essere più competitivi della grandissime piattaforme delle gig economy? Si può, spiega Forman, e ricorda le spese di lobby che Uber e le altre affrontano ogni anno. Ad esempio gli oltre 200 milioni di dollari spesi in California per supportare la Prop 22, referendum che ha esentato aziende come Uber e Doordash dal trattare i loro autisti come dipendenti. Poi ci sono le quote di remunerazione del capitale. Una cooperativa come Drivers Company deve solo pagare i suoi taxisti e le spese per lo staff interno. Uber, invece, è quotata in borsa, e per questo deve rendere conto agli azionisti che battono cassa ogni trimestre. Soldi che vengono presi a chi guida e dirottati verso gli investitori in borsa.
“Una cooperativa non è un ente no profit, il suo compito è fare profitti e dividerlo tra le persone che quel profitto l’hanno creato“, recita il sito di Drivers Cooperative.
“Mettere Uber fuori mercato? Non ci pensiamo – spiega Erik Forman – a noi interessa mettere gli autisti nelle condizioni di prendere in mano la propria vita e gestirsi il lavoro. Stiamo dimostrando che si può fare”.
Per approfondire: Ecco perché i taxisti Usa vincono contro Uber (e i rider italiani invece ancora no)
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