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Se nessuno ti passa il microfono, prenditelo!

“Quand’ero ragazzina, la mia maestra di cinese mi disse: tu sei una ragazza banana. Le chiesi cosa significasse: mi spiegò che io ero cinese fuori e italiana dentro. Si tratta di una locuzione che indica le persone di origine cinese nate e cresciute in Paesi occidentali, che di cinese hanno solo cognome, occhi a mandorla e, nel mio caso anche un ristorante cinese. Attenzione: esistono anche le ragazze mango, quelle cinesi fuori e anche dentro”.

Lo racconta nei suoi account social, Momoka Banana, content creator che sui social smonta pregiudizi e falsi miti sui cinesi. Un profilo seguitissimo, esploso durante la pandemia: su IG ha 107 mila followers, su TikTok 14mila e 500 su YouTube oltre 26 mila, su Facebook 8 mila. Romana, ha un fidanzato – ma i suoi genitori non lo sanno – e, alle spalle, una tradizionale famiglia cinese che, appunto, gestisce un ristorante di cucina tipica cinese. Il suo vero nome è Linda, Momoka è un tributo agli anime di cui è grande fan e Banana è un modo di riappropriarsi di una etichetta dispregiativa, trasformandola in punto di forza. E se all’inizio, sui social, raccontava soprattutto della propria vita, oggi parla molto di Cina e di cinesi. Perché i negozi cinesi sono sempre aperti? Perché non si vedono mai funerali di persone cinesi? Cosa succede al Festival della carne di cane di Yulin.

https://www.tiktok.com/@momokabanana/video/7107313950127082757?is_from_webapp=1&sender_device=pc&web_id=7150963254210627078
L’account Tik Tok di Momoka Banana

Momoka Banana è stata una delle ospiti di Take the Mic, appuntamento inserito nella 16ª edizione del Terra di Tutti Film Festival, rassegna cinematografica organizzata da WeWorld e Cospe. Un evento per dare voce alle nuove generazioni che si sentono minoranze e che, stanche di non ritrovarsi in narrazioni prodotte da altri, hanno scelto di rappresentarsi da sole. Come detto, la scelta di Momoka di essere molto presente sui social arriva a inizio a pandemia – primavera 2020 –, complici tutte le informazioni spesso incontrollate – oltre a vere e proprie fake news – che giravano in quei mesi sulla Cina (non solo: ha studiato e approfondito tutti i decreti che allora fiorivano quotidianamente, per condividere informazioni chiare alla sua community che, in un momento di disorientamento, si rivolgeva a lei in cerca di un punto fermo). Oggi i social sono il suo lavoro.

Quanto è inclusiva l’industria creativa italiana?

“Parlando di cinema e televisione, tendenzialmente per le persone con tratti asiatici vengono previsti ruoli macchiettistici. Grazie a TikTok – soprattutto – e Instagram altri giovani sino-italiani stanno cominciando a condividere le loro storie, stanchi di vedersi rappresentati da altri, stanchi di cliché e pregiudizi”. Cosa ne pensa, la famiglia, del suo lavoro? “In qualità di famiglia tradizionale cinese, ritengono che tutti i mali del mondo siano legati all’utilizzo del cellulare – sorride –. Poi, alla lunga, hanno capito che, in realtà, poteva essere un’occupazione anche se non sanno nulla di quello che posto. È come se avessi una seconda vita: i miei vivono in una bolla, quella della Cina degli anni Ottanta. È una cosa comune a tante persone di seconda generazione: i genitori hanno dedicato la vita al lavoro e, ora, non capiscono questo ‘nuovo’ mondo. La distanza è profonda. Una cosa va detta, però: i miei genitori mi hanno permesso di studiare. Sono una privilegiata, perché è grazie a questo contesto, anche familiare, che sono riuscita a entrare nel mondo dell’industria creativa, non permeabile né aperto alle nuove generazioni, che spesso dispongono di poco capitale economico, motivo per cui vengono solitamente indirizzate verso lavori più tradizionali. Per l’inclusività, aspettiamo le terze generazioni”.

Espérance Hakuzwimana e l’urgenza di raccontarsi

Davanti al pubblico del Terra di Tutti, con Momoka, anche Espérance Hakuzwimana, scrittrice e attivista bresciana. Nata in Ruanda nel 1991, ha vissuto in un orfanotrofio fino a quando, nel 1994, mentre nel Paese si stava consumando il sanguinoso genocidio, viene fatta fuggire su un aereo, portata in un centro d’accoglienza del bresciano e poi data in adozione a una famiglia della zona. Nel 2019 ha pubblicato un racconto nell’antologia di scrittrici afro-italiane “Future. Il domani narrato dalle voci di oggi” (curata da Igiaba Scego ed edita da effequ). Sempre nel 2019 è uscito il suo primo libro “E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana” (People). Quest’anno è stata la volta di “Tutta intera” (Einaudi).

Una foto dal profilo Instagram di Espérance Hakuzwimana

Non trovando le storie che cercavo, ho deciso di scriverle io

“Nel mio paesino quando uscivo tutti sapevano chi ero. I miei capelli e il mio colore non si potevano confondere”. Ed è lì, in un paesino di provincia, che Hakuzwimana conosce il razzismo: “Ho dovuto fare i conti anche con il razzismo interiorizzato: sono cresciuta in un contesto di odio nei confronti di rom, sinti, asiatici, e all’inizio nemmeno me ne rendevo conto. Perché non basta essere neri, per essere antirazzisti”. Sin da piccola, i libri sono stati la sua passione, il suo rifugio: a 8 anni aveva già letto tutti i libri della biblioteca comunale. “A 19 anni, all’Università di Trento mi sono innamorata della letteratura francese e ho cominciato a pensare: ma se ci sono tanti autori francesi, non è che ce ne sono anche di africani?”. Più leggeva, più Hakuzwimana si rende conto che, in quelle storie, non c’è nessuno come lei, nessun personaggio che le somiglia. “Non trovando le storie che cercavo, ho deciso di scriverle io. Volevo portare una rappresentazione reale, non edulcorata. E così è nato ‘Tutta intera’. Sono italiana, nera, adottata, sopravvissuta a un genocidio, andata via di casa dopo un’adozione non positiva. Sono un’artista. Sono tutte queste cose, e ci devo fare i conti ogni giorno”.

@hakuzwimana

Risposta a @agprovaprova sisi ho proprio scritto un libro! ✨ @einaudieditore #booktok #booktokitalia #einaudieditore #tuttaintera #scrivereunlibro

♬ Nuvole Bianche – Yuval Salomon

Ma come vive, Hakuzwimana, il rapporto con l’editoria? “È frustrante. Ho investito tutto il mio impegno per diventare scrittrice, poi mi ritrovo a dover fare l’attivista nelle case editrici, faccia a faccia con un muro di persone bianche benestanti, mentre io nemmeno posso godermi un momento di soddisfazione personale perché devo pensare a come pagarmi l’affitto. Convivere con queste discrepanze ti fa a pezzi. Spero tanto che le nuove generazioni non debbano passare tutto questo: perché comunque io, oggi, in questo Paese resto una minoranza”. E come sono le nuove generazioni? “Sicure della loro identità, ma anche scontrose e arroganti. Perché arroganti? Perché ogni giorno il mondo ti dice quello che devi essere ma tu non ci riesci. Io per prima mi devo staccare da tutto questo, ogni tanto. Devo prendere aria e fare altro poi, quando sto bene, utilizzo le parole. La pluralità è l’unica soluzione per andare oltre, tutte le voci vanno ascoltate, belle o brutte che siano”.

La moda senza etichette di Hind Lafram

Tra chi, non riconoscendosi nelle proposte altrui, ha scelto di rappresentarsi da sola c’è anche Hind Lafram, stilista e imprenditrice italomarocchina. “Tra i 13 e i 14 anni ho scelto di indossare il velo – racconta al microfono del Terra di Tutti Film Festival –, ma non trovavo nulla che mi piacesse. Non mi rispecchiavano gli abiti marocchini, ma nemmeno quelli occidentali – e io mi sento italiana. Così ho deciso di fare da sola: ho cambiato tanti stili, che trasformavo a mio piacimento”. Come spiega Lafram, nell’Islam le donne sono invitate da dio a indossare il velo: “Non è compito del marito né del fratello: il velo è una scelta tra dio e la donna. Oggi ci sono Paesi in cui le donne combattono per indossare il velo e altre in cui combattono per toglierselo: ma l’unica verità è che la donna deve essere libera di decidere”. Oltre al velo, la religione islamica chiede un abbigliamento non volgare, che non segni le forme: “La mia attività, sin dall’inizio, ha avuto questo come obiettivo. All’inizio i miei vestiti erano talmente strani da essere portabili solo a Lady Gaga”, ride.

Ti sVelo un’altra donna il TedX di Hind Lafram

L’esigenza di avere abiti adatti, per le donne musulmane, si manifesta soprattutto d’estate, con la necessità di essere sì coperta, ma di non soffrire troppo il caldo. “Ho cominciato ad acquistare tessuti leggeri e naturali, scoprendo che si stava molto meglio coperta con abiti freschi invece che in canottiera. Questo perché i materiali naturali non solo assorbono il sudore, ma proteggono anche la pelle, che non viene esposta direttamente ai raggi solari”. Nel 2012 Lafram e le sue creazioni sbarcano su Facebook e su Instagram, raggiungendo una potenziale platea molto ampia: la prima collezione intera è del 2017, “oggi faccio solo abiti su misura, principalmente abiti da sposa. Vesto le donne musulmane, certo. Metà delle mie clienti non è musulmana: vesto tutte le donne che amano i miei abiti. Eleganti, rigorosamente made in Italy. Così mi propongo come ponte tra culture, alle prese con tanti pregiudizi da smontare. Qualche esempio? I completi sportivi. Perché la donna musulmana è una donna attiva che fa sport: perché, allora, non dovrebbero esserci veli adeguati?”. Nel 2019, dopo Nike e Adidas, anche Decathlon mise in commercio l’hijab sportivo. Sommersa dalle critiche, dopo poco lo ritirò dal mercato, salvo poi riproporlo come ‘passamontagna’. “Se è hijab sportivo non va bene, se è passamontagna sì. Max Mara propone cagoule in lana e per tutti è un accessorio di moda, Kim Kardashian al Met si presenta con un body nero che la copre dalla testa ai piedi, lasciandole scoperti solo i capelli e per tutti è una fantastica trovata fashion. Mi pare evidente l’ipocrisia dietro tutto ciò. Direi, dunque, che il problema è come lo dici e lo comunichi: se sfila in passerella, il velo è un accessorio esotico. Se è per strada è oppressione. Eppure, sin dall’antichità, sono molte le religioni che prevedono un velo per le donne: penso alle suore cristiane, o anche alle donne di alcune zone italiane che, ancora oggi, si coprono il capo in segno di rispetto”. Ma come si posiziona, Lafram, nell’industria creativa italiana? “Fossi stata in Francia o Germania, con il mio lavoro sarei miliardaria. Ma io voglio farlo qui, anche se se è mille volte più difficile. Le aziende italiane non sono pronte: accettano di produrmi, magari, ma poi mi propongono di vendere all’estero, facendo pagare i miei abiti 10 volte tanto. Non è quello che voglio, ma di certo né l’economia né l’industria tessile italiane aiutano”.

Unirsi per rappresentarsi: Nadeesha Uyangoda

Siamo partite dalle ragazze banane e chiudiamo con le ragazze coconut, le ragazze cocco, nere fuori e bianche dentro. L’etichetta è quella che gli anglo americani appiccicano alle persone dell’Asia meridionale. Ad affrontare il tema, al TTFF, è la moderatrice dell’appuntamento, la scrittrice e podcaster Nadeesha Uyangoda. “Risemantizzare le offese scagliate contro soggetti razzializzati aiuta a riappropriarsi della narrazione”, sintetizza l’autrice di “L’unica persona nera nella stanza” (66thand2nd Editore), nata in Sri Lanka e arrivata in Italia a 6 anni per raggiungere i genitori, già emigrati in Brianza. “Quando si parla di nuove generazioni si parla tanto di riscatto: ma per me il riscatto non è sostituirsi a una persona che ha potere – come i bianchi benestanti di cui parlava Hakuzwimana –, ma scardinare quelle dinamiche. Riscattarsi significa cambiare il sistema”. Da dove cominciare? “Dall’affermazione dei diritti negati: il diritto alla cittadinanza, per esempio, urgentissimo. Il diritto alle migrazioni: perché ci sono persone che possono entrare negli Stati senza problemi e altri a cui l’accesso viene negato?”.

Il Podcast Sulla Razza di cui Nadeesha Uyangoda è co-autrice

“In passato mi sono spesa moltissimo per diverse campagne, come quella per il servizio civile aperto alle persone senza cittadinanza italiana. Ora sono in una posizione più defilata, l’urgenza è diventata trovare esperienze simili alla mia. Nel mentre dalla Brianza sono andata a vivere a Milano, e lì non sono più stata l’unica persona nera nella stanza. Ho conosciuto tante persone con storie come la mia, e ho capito l’importanza di unirci per rappresentarci e per rappresentare le nostre storie”. Com’è lavorare nell’industria creativa? “Non basta che una persona nera ne faccia parte per segnare un cambiamento. Servono molte persone e altrettanta consapevolezza. Onestamente? Non sono molto fiduciosa su un cambiamento a breve termine. Ma sì, un piccolo vantaggio forse le generazioni che verranno dopo di noi potrebbero averlo: noi in queste stanze siamo entrate e non permetteremo che le porte si richiudano”.

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