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Cubbit, la startup bolognese che ha reinventato il cloud in chiave sostenibile e sicura

C’è una startup bolognese fondata nel 2016 che dice di potere fare meglio dei grandi del cloud mondiale in termini di sicurezza e sostenibilità ambientale. In pratica un guanto di sfida per Amazon, Microsoft, Google.

Si chiama Cubbit, e la sua rivoluzione la sta già facendo mettendo in discussione il concetto di storage centralizzato sulle nuvole del web. Che poi nuvole (“cloud”) non sono, visto che più prosaicamente si tratta di enormi data center energivori dove i file vengono immagazzinati e ritrasferiti alla bisogna verso l’utente.

La parola magica del cloud di Cubbit è invece “distribuito“, che vuol dire che i dati vengono criptati, spacchettati e conservati su tanti nodi geograficamente vicini al possessore del file originale. Una soluzione p2p, peer to peer, che può essere accostata a quella di Napster, il software di file sharing che sconvolse il mondo della musica. Una scelta tecnologica, quella di Cubbit, che rappresenta un vantaggio in termini di consumo di energia e di sicurezza.

“Siamo partiti in 4 e adesso siamo in 40. La nostra – spiega Alessandro Cillario, uno dei fondatori – è un’azienda nata a Bologna e che si è appoggiata al ricco ecosistema cittadino, capace di supportare e fare crescere le startup. Certo rispetto agli Usa c’è una differenza in termini di capacità degli investitori, ma stiamo dimostrando che si può fare”.

Sicuramente per Cubbit il mercato è quello mondiale, visto che in Europa è l’unica azienda con una soluzione proprietaria di cloud distribuito. Per trovare i primi concorrenti bisogna guardare dall’altra parte dell’oceano Atlantico.

Alcuni numeri su Cubbit: 45 milioni di file custoditi, 5 mila utenti attivi, 70 paesi serviti e una rete B2B con 50 aziende italiane che hanno già aderito. In più c’è l’investimento del mondo cooperativo, che ha scelto la tecnologia di Cubbit per creare una rete federata di cloud basata su tecnologia italiana.

Solo nel 2021 Cubbit ha raccolto 7 milioni di euro con un round di finanziamento a cui ha partecipato anche Cdp Venture Capital Sgr.

Dentro i “nodi” fisici di Cubbit c’è un hard disk, un processore e una scheda di rete.

Perché Cubbit è differente? C’è intanto il tema dell’ambiente. “Nei data center classici ogni bit che viene immagazzinato deve essere mantenuto con molta energia. Il cloud non è una nuvola, si basa sul silicio, su computer che devono essere raffreddati e alimentati h24. Tutto questo richiede tantissima elettricità. Cubbit ha un’architettura distribuita che consuma di meno ed evita il surriscaldamento tipico dei data center”, spiega Stefano Onofri, altro co-fondatore di Cubbit e ceo dell’azienda.

C’è inoltre il tema della sicurezza dei dati, che vengono cifrati e spacchettati su nodi differenti, il che significa che nemmeno il gestore (o un soggetto terzo) potrebbe “leggerli”, anche volendolo.

Una strategia chiamata in gergo “zero-knowledge system“.

Un tema questo reso “caldo” dalle rivelazioni giornalistiche degli scorsi anni, a partire dallo scandalo Datagate scoperchiato da Edward Snowden.

Lo stand di Cubbit allo StartupDay 2022 dell’Università di Bologna. In foto Bruno Muscardin dello staff di Cubbit.

Inoltre c’è il consumare meno energia delle soluzioni basate su data center classici. Quanto di meno? “Fino a 10 volte”, dice Alessandro Cillario.

Il vero asso nella manica dell’algoritmo che coordina il cloud di Cubbitt sembra essere il modo in cui sono distribuiti i dati. Se con un servizio cloud classico i file degli utenti possono finire dall’altra parte dell’oceano e poi ritornare indietro quando devono essere utilizzati di nuovo, con Cubbit la copia in cloud dei file viene distribuita geograficamente in luoghi (nodi) vicini al possessore dei file.

La distanza media tra un file in rete è il suo possessore, si legge in un’analisi comparativa pubblicata dagli ingegneri e dai fisici di Cubbit, è di circa 800 km. Mentre l’algoritmo di Cubbit riesce a distribuire i dati entro i 100 km di distanza, oltre a contare su device che consumano meno dei server presenti nei rock dei data center.

In conclusione, considerando un sito con un traffico medio (10 mila visualizzazioni al giorno da 100 mega ciascuna), il risparmio di CO2 in un anno potrebbe toccare le 7 tonnellate. Anche questo un tema sempre più importante, visto che i data center consumeranno entro il 2030 l’8% dell’energia mondiale.

Infine c’è anche il tema della sicurezza fisica dei dati. Se un data center centralizzato viene messo fuori uso da un disastro naturale come un terremoto, oppure da un incendio come successo a Strasburgo nel 2021 o da un attentato, c’è il rischio concreto – nonostante tutti i sistemi di backup e di ridondanza – che i dati vengano persi. Se una cella di Cubbit viene spenta o distrutta, il sistema sistema distribuito fa in modo che i dati scomparsi si ricreino in un’altra cella della rete. Una garanzia di resilienza.

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