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Ecco perché i taxisti Usa vincono contro Uber (e i rider italiani invece ancora no)

I taxisti di New York? Bravi ad essere riusciti a creare una cooperativa e ad affrontare un gigante come Uber. Ma riproporre questa esperienza in Italia sarà difficile, soprattutto nel mondo dei rider“. Marco Marrone è un sociologo, ricercatore all’Institute for Global Challenges all’Università Ca’ Foscari di Venezia, membro del comitato scientifico della fondazione Fondazione Claudio Sabattini di Bologna e autore del libro “Rights against the machines! Il lavoro digitale e le lotte dei rider”.

Marrone ha seguito le vicende dei rider italiani, e ha studiato anche la situazione newyorkese, che ha visto la creazione di una cooperativa di taxisti, stanchi di sottostare alle regole di Uber.

Marrone, a New York è nata una cooperativa di taxisti capace di contendere il mercato del trasporto persone a Uber e alle altre piattaforme della gig economy. Che ne pensa?
Un’esperienza assolutamente d’avanguardia in un settore dove per certi versi le piattaforme multinazionali facevano la voce grossa. Quella di New York è una storia che dimostra come si possa rovesciare il potere delle piattaforme contro le piattaforme stesse, appropriandosi delle loro logiche per sottrarle al mercato. Non stupisce che ci sia un grande supporto da parte dei clienti che preferiscono viaggiare con personale ben pagato, invece che con taxisti che vivono con salari bassissimi e al limite della sopportazione.

La Drivers Cooperative di New York è, appunto, una cooperativa. E’ questa la strada per affrontare le piattaforme della gig economy?
Sicuramente è uno strumento in più rispetto all’armamentario sindacale tradizionale. Non è però una soluzione adatta a tutti i contesti. La Drivers Cooperative opera innanzitutto in un mercato importante come quello di New York. Ci sono poi altri due fattori decisivi: da un lato essere legati ad una storia di mobilitazioni sindacali – la cooperativa è infatti nata da attivisti sindacali – dall’altro offrire un servizio in un ambito dove il margine può essere ampio e la concorrenza è minore perché il settore è più regolato.

I settori della logistica e della consegna pacchi sono differenti? C’è il caso italiano ad esempio.
Sono settori che hanno un valore aggiunto inferiore rispetto all’esempio newyorkese, e sui quali è complicato sfidare il capitalismo di piattaforma sul suo stesso terreno. C’è poi una grandissima concorrenza, un elemento che nel mondo dei taxi, in paragone fortemente regolato, non è presente. Pensiamo inoltre al settore del food delivery in Italia: è nato in un contesto dominato dal lavoro nero e informale. Mettiamola così allora: laddove ci sono le leggi la democrazia economica è più facile.

C’è un filo rosso che lega le alternative di successo al capitalismo di piattaforma?
Il filo rosso che vedo io lega la capacità dei lavoratori di organizzarsi in cooperative e sui luoghi di lavoro all’esistenza di norme e contratti che tutelano le parti deboli. La democrazia economica è una materia complessa, che necessità di una pratica di democrazia quotidiana, e nello stesso tempo di un tessuto legislativo che consenta di esercitarla.

Le piattaforma della gig economy non sono imbattili. Ney York l’ha dimostrato.
Sono giganti ma non sono imbattibili. Diciamo che hanno i piedi d’argilla. Anche in Italia le mobilitazioni dei rider hanno messo in luce le loro fragilità. Che faranno gli investitori, che sono quelli che garantiscono l’enorme potere finanziario alle varie società di food delivery, quando si renderanno conto che il cavallo su cui hanno puntato molto non è più così forte? Quando i lavoratori protestano il marchio che tutti vediamo sul cubo dei rider si trasforma: da un logo che parla di innovazione e futuro diventa un simbolo di sfruttamento. Il soft power è fondamentale e ha ribaltato la logica del cosiddetto “lavoretto”. Quando vediamo un ciclo fattorino percepiamo ormai un lavoratore sfruttato, non uno studente che arrotonda e che deve ringraziare la new economy di internet.

Dove hanno portato le lotte sindacali dei rider italiani?
L’arma sindacale è necessaria, ma non basta perché si limita a contenere il potere. Bisogna andare oltre.

La soluzione è quella di creare cooperative?
Le cooperative sono o possono essere uno strumento formidabile, ma funzionano solo se inserite in un contesto adatto, altrimenti sono limitate e fragili. Una coop da sola rischia di restare un’esperienza interessante, ma che non è in grado di scalare e quindi di ribaltare i rapporti di forza del mercato in cui opera.

La gig economy prospera dove non ci sono regole. Servono dunque più regole?
E’ così. Grazie alle mobilitazioni e alle lotte queste regole si stanno via via costruendo anche in Italia, ma ancora non basta. Nonostante tutto larga parte dei rider italiani lavora ancora oggi sotto contratti a mio giudizio capestro. Serve quindi un rafforzamento della legislazione sul tema, e nello stesso tempo servono progetti che escano dal settore del food delivery e abbraccino mercati più ampi. In Francia qualcosa sembra muoversi, penso all’esperienza di Coopcycle, ma si tratta di progetti che si occupano di consegne a 360 gradi, non solo di food delivery. Il problema di fondo è sempre quello del fare sistema e riuscire a trasformare il mercato. Al momento le esperienze italiane mostrano che un’alternativa al capitalismo di piattaforma è possibile, e per questo è bene che si moltiplichino. Ma per riuscire davvero servono alleanze larghe, anche con la politica intesa in senso più ampio. Cioè con la polis, con tutti coloro che abitano e vivono lo spazio urbano. 

Per approfondire: New York. I taxisti che hanno fatto l’impresa (cooperativa)


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