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“Politiche che cambiano”: come coinvolgere i giovani nella cosa pubblica

Come cambia la politica, quali sono i nuovi luoghi e gli attori che partecipano alla definizione delle policy, che tematiche e parole chiave si sono affermate nell’ultimo decennio. È stato questo il focus dell’incontro “Politiche che cambiano”, il secondo della rassegna “Cose che cambiano, promossa dalla Fondazione Unipolis in collaborazione con il DAMSLab dell’Università di Bologna, che la ospita, e il Corso di alta formazione in innovatori culturali.

Dopo l’incontro “Città che cambiano”, il 23 marzo a Bologna il dibattito si è concentrato sulla capacità della politica di interpretare i bisogni di oggi: è vero che i giovani non credono più nella politica e se ne sono allontanati? Dall’ambientalismo ai diritti civili, quali sono le nuove forme di mobilitazione e attivismo civico che vedono impegnati un numero crescente di ragazze e ragazzi? A parlarne c’erano Annibale D’Elia, direttore di Economia urbana, moda e design del Comune di Milano, e Elena Ostanel, ricercatrice dell’Università Iuav di Venezia, intervistati da Roberta Franceschinelli, project manager di Fondazione Unipolis.

“I giovani si allontanano e perdono fiducia perché la politica, spesso, si inaridisce. Perde il legame con i suoi fini oppure perde il coraggio di indicarli chiaramente. La politica smarrisce il suo senso se non è orientata a grandi obiettivi per l’umanità, se non è orientata alla giustizia, alla pace, alla lotta contro le esclusioni e contro le diseguaglianze. La politica diventa poca cosa se non è sospinta dalla speranza di un mondo sempre migliore. Anzi, dal desiderio di realizzarlo. E di consegnarlo a chi verrà dopo, a chi è giovane, a chi deve ancora nascere. La politica, deve saper affrontare i problemi reali, ha bisogno di concretezza”. Sergio Mattarella

Elena Ostranel: “Oggi la politica fa fatica a rispondere ai bisogni concreti delle persone. Nei paesi anglosassoni, la differenza tra politics e policy è molto meno marcata rispetto a quello che accade in Italia, per la cultura pragmatista che fa sì che la politica risponda a bisogni concreti. La policy è infatti quell’insieme di azioni integrate che rispondono a questioni problematiche: il tema non è tanto fare l’analisi dei bisogni, ma avere un problem setting che si collochi dentro ai contesti. I policy maker, allora, non sono semplicemente figure tecniche dentro alle istituzioni, ma sono inserite all’interno dei contesti con un ruolo di connessione dentro le comunità. Servono azioni integrate, non rispondendo da fuori a un contesto che ho analizzato, ma rispondendo da dentro a un contesto che ho vissuto in prima persona. In questo senso, la politics dovrebbe avvicinarsi sempre di più alla policy.”

Annibale D’Elia: “Le persone non sanno come funzionano le istituzioni e hanno difficoltà a comprendere che cosa faccia il pubblico: vige sul tema una gigantesca confusione. C’è un documentario molto interessante, The G world, nato per spiegare agli americani a cosa serve il governo. La democrazia oggi ha bisogno di raccontare ai cittadini che esiste un lavoro invisibile, quello delle pubbliche amministrazioni, che uno non si immagina. Ed è un lavoro bellissimo, perché è fatto per gli altri, per la comunità. Questo è il policy maker. Non esiste in italiano una parola per definirlo, si potrebbe chiamare ‘progettista di politiche pubbliche’, ma non è utilizzato. Il policy maker non è un politico, ma non è neanche un mero esecutore. Tra la mera applicazione della norma e la politica, c’è la progettazione, il cosiddetto policy designL’obiettivo è tradurre le promesse dei politici e metterle a terra: il policy making è un punto di contatto tra una parte tecnica e una parte di visione. Sarebbe bello che le persone fossero più alfabetizzate su come funziona la pubblica amministrazione, e capissero il mestiere del policy maker”.

Elena Ostranel: “In Italia ci sono diversi tipi di policy making. Faccio un esempio: un consiglio regionale ha un potere legislativo, dunque definisce delle leggi che hanno ricadute concrete sulle persone. Potremmo individuare tre tipi di policy maker: in primis i legislatori e i politici, poi i tecnici – i policy maker per eccellenza – e infine le comunità, perché anche le associazioni, i gruppi, i singoli cittadini hanno una funzione di policy making, anche se non sono dentro le istituzioni. Queste tre forme dovrebbero provare a stare insieme”.

Annibale D’Elia: “Il rapporto tra neutralità e partigianeria nelle pubbliche amministrazioni è molto delicato. Va presa sul serio l’idea di non lavorare per un politico come se fosse il tuo capo, perché in primis tu stai lavorando per tutti. Ho visto tante battaglie di dipendenti pubblici che si sono opposti a tensioni autoritarie, che hanno detto: ‘Io questa cosa non la faccio’. L’idea funzionalista per cui le persone dentro la macchina pubblica devono solo lavorare come rotelline genera enormi disastri: è l’inizio dell’atteggiamento ‘A me non interessa’, ‘Non è mia responsabilità’. Invece ci sono molte persone invisibili che lavorano con passione e che fanno funzionare le cose. In Italia si usa spesso la formula ‘si è ritenuto’ oppure ‘è stato deciso’: la terza persona deresponsabilizzante della pubblica amministrazione. C’è la preoccupazione che una singola persona possa decidere in maniera individualistica e portare le cose da una parte all’altra. Nei sistemi anglosassoni invece il dipendente pubblico è riconoscibile e responsabilizzato. Da noi non basta una riforma, ci sarebbe bisogno di una risostanza: mettere nuove leve all’interno della macchina pubblica”.

Elena Ostranel: “Se ci si occupa della cosa pubblica, stando dentro al bisogno della persona, non si può essere neutrali, per definizione. Molti dipendenti della pubblica amministrazione in Italia hanno paura di prendere posizione, quando invece nei paesi anglosassoni non è così. Si parla tanto di crisi dei corpi intermedi, dei partiti: oggi si stanno affermando nuovi corpi intermedi, luoghi in cui si fanno fanno micro azioni di politiche pubbliche. Ma la politica fa fatica a vederli. Dovremmo capire l’importanza di abilitarli, e non di stare sopra: cosa vuol dire abilitare? Per abilitare bisogna capire che tipo di cassetta degli attrezzi serve. C’è un tema di competenze: competenze che devono avere sia i membri della comunità, ma anche i dipendenti della pubblica amministrazione, che devono riconoscere le energie nuove e supportarle. Bisogna chiedersi: come stare dentro un’istituzione in una maniera diversa?”

Annibale D’Elia: “Nella pubblica amministrazione si entra attraverso selezioni che verificano che una persona sappia benissimo le regole, ma non se una persona è appassionata di un certo tema. Ecco perché i gruppi di attivismo dovrebbero essere dei bacini importanti da cui prendere nuove leve. Molti luoghi della politica si fondano sul ‘bisognerebbe’, ma rimuovono l’elemento del ‘come’. ‘Bisognerebbe’ si basa su un’impersonalità che si aspetta che i cambiamenti arrivino dal cielo. Fare policy significa non usare la formula ‘bisognerebbe’, ma ragionare sul ‘come’: caricarsi di una responsabilità, capire come fare concretamente le cose”. 

Elena Ostranel: “Oggi i giovani hanno voglia di impegnarsi, ma con modalità nuove. La politica sta cambiando: non interessa più la pura visione, ma c’è bisogno di maneggiare le cose in modo pratico, pragmatico, si sente la necessità di risolvere i problemi concreti. Molti giovani ci tengono a dire: ‘Io non faccio politica, io faccio attivismo’. La politica sempre di più è un fattore individuale, non è più una dinamica collettiva: il problema è che siamo tanti individui che oggi fanno fatica a darsi un’organizzazione. Si devono trovare meccanismi nuovi per organizzarsi, forme innovative in dinamiche di everyday making: sono meccanismi che ancora non abbiamo trovato, ma che dobbiamo continuare a cercare”.

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