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“Città che cambiano”: le nuove sfide delle metropoli del futuro

Città piccole o metropoli, città in espansione o in crisi, città disordinate e caotiche, città vivibili e a misura d’uomo. Sono tante le città raccontate nell’incontro “Città che cambiano”, il primo del ciclo Cose che cambiano”, promosso a Bologna dalla Fondazione Unipolis in collaborazione con il DAMSLab, che ospita la rassegna, e il Corso di alta formazione in Innovatori culturali. Da febbraio a maggio, attraverso quattro incontri si porterà avanti una riflessione su quattro aspetti complessi della società in cui siamo immersi: dopo le città, si parlerà di politiche, culture e parole.

Nel primo incontro, a confrontarsi c’erano Davide Agazzi, cofondatore di FROM ed esperto di innovazione ed economie urbane, e Silvia Cafora, architetta e ricercatrice presso il Politecnico di Torino. ​La modalità era quella dell’intervista doppia: una battuta a testa, in uno scambio ritmato e ricco di nuovi spunti. Il dialogo è stato moderato da Roberta Franceschinelli, project manager di Fondazione Unipolis, e introdotto dalla direttrice di Fondazione Unipolis Marisa Parmigiani, e dal responsabile scientifico di DAMSLab Roberta Paltrinieri.

Nel corso degli ultimi anni, complice anche la pandemia, ci si è interrogati a lungo su cosa siano e cosa possano essere le città: si è passati da visioni più o meno apocalittiche, che professano una loro crisi inevitabile, ad altre che si interrogano su come costruire scenari urbani che possano assecondare – e non solo imporre – nuovi stili di vita, a partire anche da un ruolo attivo delle comunità locali. Che futuro avranno le nostre città?

Silvia Cafora: “Oggi più di 4 miliardi di persone vivono nelle città: il 60% della popolazione globale. Solo nel 2007 la popolazione urbana ha superato quella rurale e il trend è in rapida ascesa: si prevede che la percentuale arriverà al 70% nei prossimi 10 anni. Nel Medioevo c’era un detto: ‘L’area delle città rende liberi’. A quel tempo, quella frase aveva un senso, mentre oggi in parte sembra paradossale: le città, da luogo delle possibilità, stanno diventando teatro di gravi disuguaglianze”.

Davide Agazzi: “Le città funzionano quando sono in movimento: quando questo movimento si ferma, le città perdono di senso. Ce ne siamo accorti con la pandemia: oggi, in città, le case in cui viviamo sembrano troppo piccole, le relazioni sociali che abbiamo intessuto sembrano insoddisfacenti. Le città sono equazioni fragili, basate su un equilibrio precario: quando il diritto di qualcuno prevale sui diritti di altri, la qualità della vita viene minata. Pensiamo ai diritti dei turisti, ad esempio, in città come Firenze o Venezia: quei diritti schiacciano quelli dei residenti e rendono il contesto respingente”. 

Silvia Cafora: “Con la pandemia nelle città sono nate nuove criticità e nuove sfide: abbiamo assistito all’allargarsi delle disuguaglianze socio-economiche, alla restrizione di accesso ai beni comuni come la casa e il lavoro, e di conseguenza alle difficoltà di governo delle città stesse. Oggi siamo testimoni di un processo di mercificazione dei beni comuni e pubblici, oggi sempre più privatizzati”.

Davide Agazzi: “Il concetto di città della prossimità o città dei 15 minuti è ambivalente. Da un lato, l’obiettivo è che tutti possano usufruire dei servizi essenziali direttamente nel proprio quartiere; dall’altro però si rischia la ghettizzazione. Per adesso, l’idea che tutti i quartieri siano dotati degli stessi servizi è un’utopia: servirà tempo e investimenti per arrivarci. Non dimentichiamo poi che città è sinonimo di abbondanza, possibilità, uscire dal seminato: se ci rinchiudiamo nel nostro quartiere, tutto questo perde di senso”. 

Silvia Cafora: “La città dei 15 minuti dovrebbe permettere un aumento di diffusione di servizi e la possibilità di accesso alla cultura anche nei quartieri periferici. Qual è la criticità? Laddove si creano dei servizi, si attivano anche dinamiche gentrificatorie, che rischiano di espellere gli stessi abitanti per cui quei servizi erano stati creati”. 

Davide Agazzi: “Le città cambiano, si espandono, si specializzano. Contemporaneamente, cambiano anche i cittadini che le popolano. Per capire questo concetto basta considerare un dato: nel corso degli ultimi 10 anni, il 40% dei residenti milanesi è cambiato. Non è la città che si è spostata a sinistra, sono i cittadini che sono diversi. Le città vivono se c’è un ricircolo di persone: se invece accedere alla città diventa sempre più difficile e costoso, questo ciclo virtuoso si spezza. Ecco perché il problema abitativo è centrale: o riusciamo ad abbassare il costo della vita e della casa, o riusciamo ad alzare i salari. Altrimenti le nostre città perderanno la loro attrattività nel prossimo futuro.”

Silvia Cafora: “L’abitare potrebbe essere il fulcro da cui partire per contrastare fenomeni di espulsione e segregazione. Stiamo assistendo a una crescita del disagio legato alla casa: il 5,3% delle famiglie italiane soffre di un grave disagio abitativo. Cresce la richiesta di nuovo accesso alla casa, e vi è una crescente denuncia di solitudine e di mancanza di cura. C’è stato uno smantellamento dello stato sociale e dell’housing pubblico. Dall’altra parte, c’è il mercato che spinge, e le autorità pubbliche hanno favorito fenomeni di turistificazione sostenendo gli affitti a breve termine. La comunità però ha risposto, proponendo nuovi modelli abitativi, che prevedono spazi comuni e spazi aperti alla città”.

Davide Agazzi: “Oggi assistiamo a una competizione sulle destinazioni d’uso delle aree rigenerate: chi decide cosa fare in una certa area, decide in parte del futuro della città. Costruire un hotel, un supermercato, un centro culturale o un’area verde sono scelte molto diverse. In primis, bisogna attivare la cittadinanza, domandando verso che direzione si vorrebbe andare. E poi bisogna coinvolgere gli stakeholder, per rendere reale lo sviluppo territoriale sperato. La prima sfida è: che futuro avranno territori dove la popolazione inattiva tenderà a superare quella attiva? Le persone invecchiano e non sono più in grado di produrre: ci dobbiamo occupare di pianificare città aperte, con un ricambio di popolazione continuo. La seconda sfida è quella ambientale: le città vanno ripensate perché siano adatte a un clima nettamente diverso. A Parigi, si stanno già preparando perché nel 2050 la temperatura sarà come quella di Siviglia oggi”. 

Silvia Cafora: “Come attivare le comunità e includerle nella produzione di città? In Europa, in tempi diversi e modalità diverse, le comunità si sono attivate e hanno prodotto modelli abitativi alternativi nati dal basso. Si tratta di modalità innovative di accesso alla casa, che prevedono tempi e modi di vita diversi. Già negli anni Novanta in diversi paesi nascono progetti abitativi pionieri, che hanno fatto un uso creativo degli strumenti legali per creare nuovi modelli abitativi basati non sul profitto, ma su valori come la condivisione e la solidarietà. Questo permette di abbassare i costi della casa e di renderla più accessibile. Alcuni di questi modelli, poi, sono riusciti ad essere scalati e riprodotti anche in altri contesti. Anche in Italia esistono modelli abitativi alternativi: oggi contiamo 27 cohousing, 20 ecovillaggi, 36 case famiglia, 6 condomini solidali. Quello che manca è il portato rivoluzionario. Nel nostro paese c’è un grande rimosso: abbiamo un sistema cooperativo incredibile, con una storia che inizia a fine Ottocento, che copre tutti gli aspetti di vita, dalla casa al lavoro, fino al consumo. Mentre in Europa c’è una grande riscoperta delle cooperative, in Italia (dove il sistema è già incredibilmente radicato) non ce ne ricordiamo più. Dobbiamo recuperare questo modello e adattarlo al presente, se davvero vogliamo trovare soluzioni alternative alla crisi congiunturale che stiamo attraversando”.

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