Sembra che la parola lavoro si stia connettendo sempre più al suo etimo latino labor, ovvero fatica.
Si fatica a trovarlo, si fatica a svolgerlo e a mantenerlo.
E ultimamente si fatica anche a volerlo come dimostra il fenomeno delle Grandi Dimissioni.
La parola «lavoro», a dispetto di quanto indicato nell’articolo 1 della nostra Costituzione, si è impolverata così tanto, che i più non riescono a scorgere sotto la patina opaca che la ricopre, il senso identitario che per decenni abbiamo riposto lì.
Oggi, si lavora perlopiú per garantirsi un guadagno, soddisfare i bisogni vitali e dedicarsi magari con tutto sé stesso a dimensioni «altre» ben più appaganti e sensate e spesso ad alta intensità di lavoro gratuito e volontario.
Il lavoro, quello che dà da mangiare e permette di pagare le bollette è ridotto all’osso: auto-consumarsi per auto-riprodursi.
É ormai un ombrello logoro che fa acqua da ogni parte. E non potrebbe essere altrimenti se continuiamo a parlare di lavoro per indicare cose diverse: diciamo che un facchino, un metalmeccanico, un bancario, un artista, uno scienziato, un giornalista, un politico o un professore lavorano, come se si trattasse sempre della stessa cosa.
Ma non è così. C’è un bel po’ di differenza. Una differenza che può voler dire a volte aspettative di vita diverse. Tempo di vita. Senza parlare del valore sociale e delle relative retribuzioni collegate a tali lavori. Beninteso, è sacrosanta la rivendicazione salariale in un Paese come il nostro in cui i salari spesso non permettono di uscire dalla povertà, ma forse servirebbe uno scatto ulteriore.
Una riflessione sulla “composizione della produzione” ovvero sulla definizione qualitativa di ciò che si deve produrre, e perché.
Chissà se un giorno ci arriveremo da soli e non per necessità o crisi pandemiche o energetiche.
In questo vuoto di senso non stupisce perciò che il lavoro, sia quando c’è che quando manca, possa diventare epicentro di terremoti emotivi.
Che possono virare verso la rabbia, il collasso, la resa e il burnout. O la morte. Sul lavoro.
Che con somma ipocrisia chiamiamo morti bianche. Come se non ci fosse responsabilità alcuna, ma solo fatalità. Ineluttabile destino.
E va da sé che a un lavoratore a cui è stato espropriato il diritto di decidere finalità e natura del proprio lavoro, la libertà non potrà che identificarsi con la sfera del non lavoro.
E allora ben venga il primo maggio ma come festa del non lavoro. Come momento per celebrare il diritto al riposo o al fare per diletto.
Per esaltare l’homo faber che produce l’opera ben fatta e socialmente utile e mettere tra parentesi l’homo laborans, reperto del passato.