Tutti a dirci siamo nell’era dell’apprendimento permanente, del lifelong learning.
Tutti a dirci che dobbiamo imparare a imparare.
E se invece servisse disimparare?
Quando nel 2011 Marc Andreessen scrisse sul Wall Street Journal “Software is eating the world“, ovvero che il software si stava mangiando il mondo, sembrava una boutade.
Oggi vediamo quanto fossero profetiche le sue parole .
Le cinque maggiori aziende al mondo sono aziende IT: Amazon, Facebook, Google, Microsoft e Apple.
In realtà più che il software sono queste multinazionali che si stanno mangiando il mondo.
Pensate che Apple ha superato i tre trilioni di dollari di capitalizzazione.
Più del Pil della Francia e grosso modo quello di India o Gran Bretagna.
Il software, invece, più che il mondo, si sta mangiando la nostra mente.
Colonizzandola con “non cose” per dirla con l’ultimo libro di Byung-Chul Han.
Il mondo delle “non cose”
Siamo rapiti e perennemente distratti da una irresistibile ebbrezza comunicativa e informativa stimolata ad arte attraverso abili miscele di stimoli e sorprese.
Che ci allontanano dal mondo vero. Quel mondo, dice Han, fatto di “cose silenziose, poco appariscenti, vale a dire abituali, secondarie o ordinarie cui manca qualsiasi capacità di stimolare – ma che sanno ancorarci all’essere”.
Sono quelle «cose del mondo» di cui parlava Hannah Arendt ne La vita activa che secondo lei servono “stabilizzare la vita umana”.
In questo contesto imparere può diventare apprendimento a una sola dimensione: quella digitale.
Con buona pace di tutta quella cultura materiale che ci ha consentito per millenni di costruire un rapporto terragno col mondo: dall’accensione del primo fuoco fino agli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina.
La poesia come via
Oggi, con il “codice” che cerca di cacciarci nel Metaverso, forse, più che imparare a stare lì e gestire i nostri avatar, dovremmo concederci un po’ di detox tecnologico e disimparare.
Per reimparare a costruire inediti mondi nuovi, con la scrittura, l’arte, la letteratura e la poesia.
Per “abitare poeticamente la terra” come diceva Hölderlin per destinarci inedite traiettorie di possibile e riattivare la nostra respirazione soffocata, dice Franco (Bifo) Berardi col suo Respirare. Caos e poesia.
Ha ragione Ballard quando nel prologo del suo romanzo Crash arriva a dirci che “è ogni volta meno necessario che lo scrittore inventi un contenuto fittizio. La finzione è qui. Il compito dello scrittore è inventare la realtà”.
In un mondo che ci circonda che assume sempre più le sembianze di un grande parto fantastico “l’unico nodulo di realtà che ci rimanga è quello che abbiamo nel cervello”.
In quest’ottica la narrazione e la poesia può diventare ragione conoscitiva in grado di disarticolare l’immaginario perverso a cui allude Ballard.
Può creare realtà, ovvero recuperare il significato delle parole, il senso delle cose, il giusto tempo delle azioni, l’emozione dei corpi.
Può conferire spessore al presente e riscattarlo dalla schiavitù dell’istante per donarci ancora futuro da scrivere.
Forse può.