Troppo.
Mi hanno accusato in tanti di aver osato troppo. Di essermi spinto troppo in là col mio volo.
Mi hanno etichettato come imprudente e impudente. Folle.
Uno scapestrato tracotante.
Accecato dalla smania di vedere da vicino il sole. Ma non è così.
Non mi interessava il sole e neppure lo cercavo.
Io cercavo la terra. Volevo vederla tutta intera dall’alto.
L’ho capito man mano che mi allontanavo e lei si curvava fino a diventare una palla bellissima sospesa nello spazio.
Un’emozione pazzesca, che ti può accecare.
Guardatela qui sotto.
Tutti la chiamano Blue Marble: biglia blu.
Io l’ho vista molti secoli prima di voi.
Molto prima di questa foto, scattata a una distanza di circa 45 000 km, il 7 dicembre 1972 da Harrison Schmitt: l’ultimo uomo a mettere piede sulla luna, con la missione Apollo 17, e il penultimo a lasciarla.
Adesso prova a immaginarti l’effetto di questa immagine sulla gente all’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso.
Ok c’era stato Copernico e pure Galilei.
La terra, si sapeva che era rotonda, ma nessuno fino ad allora l’aveva mai vista da fuori.
Nessuno poteva concepire che quella biglia, per quanto grande, era pur sempre finita.
E pertanto esauribile.
Prima di allora la gente percepiva la terra come piatta e infinita. E se una cosa la percepisci come infinita non ti stai tanto a curare dei guai che puoi procurare.
Di questa cosa era convinto Steward Brand, uno che sapeva pure volare visto che era un ex paracadutista.
Ma anche un biologo, laureato a Stanford con un sacco di passioni: dalla musica all’LSD, dalle tecnologie all’editoria.
Tutto in perfetto stile controcultura californiana di quegli anni.
E allora cosa si inventa questo signore?
Una bella campagna per costringere la NASA a mostrare al mondo le foto scattate durante le missioni del programma Apollo.
E per due anni, a partire dal 1965, comincia a fare un sacco di chiasso per ottenere una risposta.
Fa l’uomo sandwich e comincia a distribuire pin in cui chiede:
“Perché non abbiamo ancora visto una fotografia di tutta la terra?”.
Lo fa a Berkeley, davanti alle sedi del MIT e della Nasa, dove alcuni dirigenti cominciano pure a indossarle quelle spillette.
Fino a quando la Nasa non tira fuori una foto della terra.
Non quella di Schmitt del ’72. Qui siamo nel ’67.
E allora Brand che fa?
La prende e l’anno dopo, la sbatte sulla copertina del Whole Earth Catalog.
Probabilmente non vi dice niente questa rivista, vero?
Ma se vi dico Stay hungry, stay foolish?
Magari vi viene in mente Steve Jobs e il suo celebre discorso fatto alla Stanford University di San Francisco il 12 giugno 2005 e che si chiude proprio con quelle parole: sii affamato, sii folle!
Ebbene quelle parole non sono sue, come lui stesso dice alla fine del suo intervento.
Comparivano nell’ultima di copertina del Whole Earth Catalog che era «una specie di Google 35 anni prima di Google».
Un mix di trucchetti da makers, genialate da hacker ante litteram, consigli per gli acquisti intelligenti, “how to” per la libertà, prime teorie olistiche e approcci interdisciplinari.
Insomma una sorta di bibbia per un movimento che perseguiva una visione che oggi potremmo definire realmente sostenibile e responsabile.
Erano i “folli” degli anni ‘60 e ‘70 che avevano già pre-visto tutto.
Come quelli del Club di Roma di Aurelio Peccei e del Rapporto sui limiti dello Sviluppo (anno 1972), che prospettava una decina di scenari al collasso nel 21° secolo, per l’emergere di varie crisi concomitanti: alimentare, ambientale, demografica ecc.
Tutta roba che quelli “sani”, per 50 anni hanno pressoché ignorato.
Ecco perché io sono folle.
E voi?
Siete tra quelli sani o tra quelli folli?
O tra quelli che almeno hanno la decenza di scusarsi!