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Piattaforme digitali: il modello cooperativo come alternativa a quello estrattivo

“La cooperazione e il nostro lavoro sono a rischio se non troviamo in fretta strumenti per competere alla pari con le grandi piattaforme. Per questo abbiamo deciso di costruire una piattaforma cooperativa, e lo stiamo facendo a partire dalla tecnologia che abbiamo già sviluppato e dalla ricerca di finanziatori”. Riccardo Carboni è il presidente di Cotabo, storica cooperativa bolognese che fornisce servizi a 524 soci tassisti.

Cotabo è una delle tante imprese che in Italia e in Europa stanno assistendo all’avanzata delle piattaforme della gig economy, un fenomeno nato nella Silicon Valley e ormai affermatosi in tutto il mondo.

Per dirla con le parole dello scrittore e imprenditore Sangeet Paul Choudary “platforms are eating the world“, le piattaforme si stanno mangiando il mondo.

Nel caso di Cotabo si tratta di competere con colossi come Uber o Lyft, che puntano al monopolio del mercato e al livellamento verso il basso della qualità del lavoro. Per questo la coop bolognese, una rete di tassisti che si sono associati per mettere in comune i servizi necessari per lavorare – app e centrale telefonica per le prenotazioni delle auto in primis – ha deciso di allearsi con altre cooperative di taxisti nel mondo, come la Drivers Cooperative di New York.

Un evento organizzato dalla Drivers Cooperative di New York, cooperativa di taxisti che sul mercato riesce a praticare tariffe più basse di quelle di Uber e, nello stesso tempo, aumentare le paghe agli autisti.

L’obiettivo è quello di creare una piattaforma cooperativa, dove i dati restano in mano ai lavoratori (in questo caso gli autisti associati in cooperativa), così come le entrate.

Una rivoluzione visto il modello mainstream che domina il mercato: fatto di grandi piattaforme tecnologiche che intermediano gli scambi di beni e servizi, spesso diventano monopoliste e creano mercati basati sullo sfruttamento e la massimizzazione del profitto.

Le grandi piattaforme quotate in borsa non hanno solo “invaso” il settore dei trasporti. C’è tutto il mondo della logistica e del food, con Deliveroo, Just Eat e altri marchi che hanno imposto la cosiddetta l’economia dei lavoretti, la gig economy, dove i riders vengono pagati a cottimo.

E c’è anche il turismo, con Airbnb che ha rivoluzionato il volto e la fruizione delle città, in peggio visto che nei centri turistici è sempre più difficile trovare un alloggio per vivere stabilmente e lavorare.

Cosa non va nelle piattaforme estrattive

“Le grandi piattaforme digitali solitamente servono ad estrarre dati e a garantire profitti a chi le possiede“, racconta Vanni Rinaldi, studioso del tema e responsabile dell’innovazione di Legacoop nazionale.

Partite con una promessa di libertà e di condivisione, le piattaforme della Silicon Valley hanno finito per diventare monopoliste e, letteralmente, estrarre profitti dai territori portandoli altrove, nelle tasche cioè dei grandi fondi di investimento. Obiettivo ideale di queste società è quello di diventare “unicorni”, imprese valutate un miliardo di dollari entro i primi cinque anni di vita.

Quello degli unicorni è un modello negativo, si tratta di società che scalano in fretta attraversando confini, concentrando le ricchezze in poche mani e catapultando i lavoratori in un mondo fatto di dumping, algoritmi poco trasparenti e logiche di controllo”, spiega Francesca Martinelli, attivista, ricercatrice e direttrice della fondazione Centro Studi Doc.

A dimostrazione di tutto questo c’è la vicenda dei riders italiani, con tutte le proteste e le denunce legate ad un mercato del lavoro completamente destrutturato e basato su due assunti: da una parte il controllo totale della piattaforma sulla prestazione lavorativa, dall’altra la sistematica mancanza di un rapporto di lavoro subordinato. I ciclofattorini secondo molte piattaforme sarebbero infatti semplicemente liberi professionisti, quindi senza alcun diritto.

Le alternative a base cooperativa

Una manifestazione di rider a Milano. La cooperativa fiorentina Robin Food è nata in risposta allo sfruttamento lavoratorivo del settore del food delivery.

“Ci siamo resi conto che eravamo tutti nella stessa barca e così abbiamo creato un’impresa che garantisse dignità e tutele, eco sostenibilità e redistribuzione delle risorse”, racconta Simone Di Giulio della cooperativa fiorentina Robin Food, startup della consegna a domicilio nata in risposta alle pessime condizioni di lavoro del food delivery. Attraverso un crowdfunding Robin Food ha potuto finanziarsi e mettere tutti i suoi riders sotto regolare contratto nazionale.

Un’eccezione nel panorama del settore. In più, essendo una cooperativa, Robin Food offre ai soci la possibilità di decidere sulle scelte strategiche aziendali.

Altra coop nata di recente è Fairbnb, startup che ha l’obiettivo di offrire un modello alternativo al noto Airbnb. Dietro il colosso del turismo mordi e fuggi ci sono investitori come Blackrock, Morgan Stanley, Vanguard Group. Dietro Fairbnb ci sono i soci e le comunità locali che scelgono di cercare una via alternativa al modello estrattivista.

La home del sito di Fairbnb, startup che definisce “piattaforma cooperative che mette le persone davanti al profitto e reinveste nella comunità”

Fairbnb inverte gli effetti negativi del paradigma delle piattaforme estrattiviste, per puntare invece su modello redistributivo – spiega Alessandro Rocchi, general manager di Faibnbn – Faibnb chiede le stesse commissioni delle più note piattaforme turistiche, ma va a destinare metà di quanto incassato verso un progetto sociale del territorio. In sintesi Faibnb crea e rafforza le comunità“.

Check di legalità, certificazioni di sostenibilità, collaborazione con le istituzioni locali, la regola del “one host, one home” che combatte l’impatto del sovraturismo: tutto questo è Faribnb, startup cooperativa che in futuro punta ad ampliarsi anche con attività di crowdfunding capaci di coinvolgere gli utenti.

Le piattaforme cooperative come alternativa

Un’alternativa possibile al modello rapace delle piattaforme estrattive è data dal concetto di “piattaforma cooperativa“.

In sintesi si tratta dell’unione, da un lato della gestione democratica dell’impresa tipica del mondo cooperativo, e dall’altro della tecnologia delle piattaforme digitali, basate sui dati e sull’interazione con gli utenti partendo da un bisogni di servizi o prestazioni.

A coniare il concetto di piattaforme cooperative è stato per primo Trebor Scholz, attivista e docente alla New School di New York.

“In questa partita i dati sono il cuore di tutto, visto che sono loro il vero valore delle piattaforme – spiega Vanni Rinaldi – Di chi sono i dati di una cooperativa digitale? Sono del socio che li ha conferiti e quindi della cooperativa stessa”.

Per questo Rinaldi propone un passaggio concettuale e pratico: “Dalle coop bisognerebbe passare alle CoApp – dice – perché la tecnologia si può sviluppare anche attraverso il cooperativismo per consentire relazioni più stabili ed eque. Il movimento cooperativo potrebbe e dovrebbe recepire il concetto di mutualità digitale nei suoi statuti”.

A cosa serve potrebbe servire tutto questo? Ad esempio ad evitare di dover dipendere da piattaforme digitali estrattive, basate sull’intermediazione e sulla generazione selvaggia di profitti.

Le piattaforme cooperative per definizione sono differenti: i profitti li lasciano sui territori dando il potere ai soci di controllare il proprio lavoro.

“C’è una contronarrazione sulle piattaforme capitalistiche che è molto movimentista, ed è basata sul concetto di piattaforme cooperative – ragiona il sociologo Flavio Zandonai – Quello che si sta dicendo in questo momento è che il modello cooperativo può essere un’alternativa al capitalismo. E’ uno scontro ideologico, di visioni del mondo. Uno scontro che dopo tanto tempo sta dando lustro al mondo della cooperazione”.

Il ruolo della politica

Non è un caso che le piattaforme estrattive siano nate negli Usa, paese dove il mercato del lavoro è più destrutturato rispetto all’Europa e i flussi di capitali hanno più libertà di operare.

Oltre alle singole legislazioni nazionali, l’Europa potrebbe fare molto per consentire alle piattaforme cooperative di competere ad armi pari con le grandi compagnie della Silicon Valley.

Due le vie: regolamentare la raccolta e lo sfruttamento dei dati, e regolare le prestazioni di lavoro nate all’interno delle piattaforme digitali. L’Unione europea sta procedendo in entrambe le direzioni.

L’europarlamentare Pd Elisabetta Gualmini è relatrice per il Parlamento europeo della direttiva sui lavoratori delle piattaforme.

“Con la direttiva in discussione al Parlamento Europeo affermiamo alcuni principi base per tutelare i diritti sociali dei lavoratori delle piattaforme. – spiega – In primis chiariamo che laddove ricorrano tutte le condizioni oggettive della subordinazione, il lavoratore deve avere tutte le tutele del lavoro subordinato. Se non sono subordinati, sono autonomi, e l’onore dell’autonomia deve nel caso ricadere sul datore di lavoro. Non ci potrà essere una terza tipologia di inquadramento”, dice Gualmini sintetizzando la proposta.

Altro punto importante: “Chiediamo che le piattaforme registrino i lavoratori nel Paese dove operano, che ci siano controlli maggiori e che le decisioni importanti sulla vita di un lavoratore non possano essere comunicate con un messaggio ma debbano essere ricondotte a una persona umana”.

Entro un anno la direttiva dovrebbe essere approvata, e come sempre sarà una sintesi della volontà del Parlamento europeo, dei singoli Stati e della Commissione guidata da Ursula von der Leyen.

Presto per dire quando la direttiva inciderà, ma resta la direzione politica di un intervento che per la prima volta andrà ad armonizzare le condizioni dei riders di tutta Europa, e non solo loro. Si parla di potenzialmente milioni di persone che esercitano la loro attività attraverso piattaforme digitali.

La differenza tra piattaforme cooperative e le piattaforme digitali della Silicon Valley

Un momento del convegno Piattaforme cooperative: Visioni, imprese e politiche per lo sviluppo. In foto Simone Gamberini, direttore generale di Coopfond, il fondo mutualistico di Legacoop.

A tracciare una linea teorica capace di separare i due mondi, quello delle piattaforme a base cooperative e quello delle piattaforme estrattiviste, è Francesca Martinelli.

“La prima differenza – ha spiegato Martinelli al convegno “Piattaforme cooperative: Visioni, imprese e politiche per lo sviluppo” – è che quando creano una cooperativa i lavoratori lo fanno in legalità e sicurezza. La seconda differenza è che il modello delle piattaforme cooperative non è basato sull’intermediazione, cioè sull’estrazione di valore su ogni singola interazione tra utenti e fornitori di servizio. Nel modello basato sulle piattaforme cooperative non può esistere nessuna speculazione, perché una volta che sono pareggiati i costi di gestione tutta la ricchezza viene redistribuita. Terza differenza: la tecnologia viene usata in modo etico, i dati sono trasparenti, l’organizzazione è collettiva”.

Secondo Giuseppe Guerini, presidente di Cecop, “le cooperative possono essere una risposta efficace alla grande trasformazione tecnologica, difendendo diritti e aumentando la capacità imprenditoriale di una comunità”.

“Quello che vediamo oggi – continua Guerini – non sono più le grandi fabbriche, ma fabbriche e uffici diffusi. Il modello di impresa cooperativa può contrastare questa polverizzazione del lavoro e dare un nuovo senso alle persone”.

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