Schwa, storia del simbolo non binario che vuole fare convivere le differenze
Non chiamatela “imposizione” o “soluzione”, lo schwa è una sperimentazione. La manifestazione di un’urgenza nata molti anni prima di finire al centro del dibattito sul linguaggio inclusivo in Italia.
Non ha dubbi la sociolinguista Vera Gheno, docente e ricercatrice presso l’Università di Firenze, nel chiarire questo passaggio. È a lei che, dalla metà del 2020 ad oggi, viene attribuita la responsabilità di aver proposto per la prima volta l’uso del simbolo “ǝ” per sostituire il maschile esteso nella lingua italiana (e quindi ad esempio “benvenuti” diventerà “benvenutǝ“).
Con l’obiettivo di non discriminare più per genere maschile/femminile le tante persone che non vi si riconoscono.
Anche se, chiarisce, “come linguista non posso chiamarla ‘proposta’ e imputarla a me è decisamente troppo. Prima di me c’è stato ad esempio Luca Boschetto”. Docente appassionato di temi relativi all’inclusività di genere e linguistica, nel 2015 Boschetto pubblicò un articolo nel quale pose le basi della proposta; nel 2020 quell’articolo si è poi trasformato nel portale Italiano inclusivo.
Vera Gheno lo riprese nel suo volume Femminili singolari (Effequ, 2019), dove la sociolinguista si faceva portavoce dell’idea di sostituire lo schwa ai plurali ambigeneri al posto dell’asterisco, idea che già da tempo circolava nel linguaggio di studiosǝ e attivistǝ militanti.
Con una differenza ulteriore rispetto alla proposta di Boschetto, che prevede due simboli diversi per il singolare (“ǝ”) e il plurale (“з”). Fino a quel momento, lo schwa non ha fatto parlare di sé.
“Poi, il 25 luglio del 2020 – ricorda Gheno – uscì sulla prima pagina de La Stampa un commento di Mattia Feltri basato su un mio intervento del 23 luglio all’iniziativa Prendiamola con filosofia, durante la quale avevo parlato della scelta della casa editrice Effequ di tradurre la forma todes, usata dall’autrice femminista brasiliana Marcia Tiburi nel libro Il contrario della solitudine, con lo schwa”.
Il pezzo di Feltri, intitolato in maniera sarcastica Allarmi siam fascistə, è stato solo il primo di una lunga serie di critiche mosse contro questa proposta, ritenuta da molti di difficile applicazione e di carattere prescrittivo.
“Il pregio e il difetto di quell’intervento – commenta Gheno – è stato di aver fatto traboccare il vaso e aver reso lo schwa di dominio pubblico. È frutto di una ‘falla’, che interpreta questo simbolo come uno sforzo teso a cancellare le altre desinenze e i generi, da usare ovunque. La riflessione e lo studio approfondito del dibattito che ne è seguito, mi porta oggi a dire che si sia aperto nel momento in cui la necessità di parlarne era ormai generalizzata”.
Che cos’è lo schwa, e cosa c’era prima
Da anni i gender studies, la linguistica e i movimenti lgbtqia+ si interrogavano su come rendere la lingua italiana più comprensiva per tutte le persone che non si riconoscono nel binarismo maschile-femminile (nonbinary).
“Prima si usava l’asterisco, ma si è vista anche la ‘u’, la ‘x’, l’omissione dell’ultima lettera (‘Car tutt’)”, racconta Valentina Pinza, responsabile de La Falla, la rivista del Cassero Lgbti Center di Bologna, spazio politico e di lotta, dove da anni si sperimentano soluzioni per superare il maschile sovraesteso.
Oggi le scelte redazionali de La Falla sono approdate sullo schwa, che Pinza definisce “la tessera di un mosaico che per fortuna ha scandalizzato così tante persone, perché prima esisteva solo nella nostra nicchia”.
A differenza delle altre sperimentazioni, lo schwa ha il vantaggio di essere un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale (Ipa) che corrisponde effettivamente a una vocale media. È presente in numerose lingue, come l’inglese (pencil, dinner…), e nei dialetti, soprattutto del Sud Italia, e la sua pronuncia concorda con un suono intermedio tra a ed e, a metà strada tra maschile e femminile.
In italiano “usiamo per pigrizia il maschile sovraesteso – spiega la sociolinguista Gheno –, ed è normale, perché questo uso beneficia del fatto che è il primo a venirci in mente. Ma il caso difficile da formulare si presenta quando ci si riferisce a una persona non binaria”.
Per questo lo schwa può essere usato come desinenza per esprimere tutti i generi nonbinary e le pluralità indistinte (dove non sappiamo chi le compone); ed è diverso dal genere neutro, con il quale viene spesso erroneamente confuso.
Interrogandosi sul perché le persone abbiano così paura dello schwa, Pinza ad esempio risponde che la ragione sta proprio nel fatto che “non conoscono ciò che questa particella rappresenta, l’intersezionalità”. Questo concetto può non essere infatti noto ai più e dunque non risulta sempre chiaro: nonbinary è un termine ombrello che raccoglie tutte quelle identità di genere che non si collocano nel binarismo maschile-femminile (trans*, queer…) e che non ha necessariamente a che fare con l’orientamento sessuale.
“Non mi sono mai sentito maschio, non sono un lui e non sono una lei. L’impostazione binaria – del mondo e della lingua – non mi offre lo spazio per esistere, in quell’aut aut io non ci sto”, ha spiegato lo scrittore Jonathan Bazzi in un articolo pubblicato sul quotidiano Domani.
La diffusione dello schwa
Bazzi racconta, ad esempio, di aver selezionato il genere they/them nella propria bio di Instagram, che potrebbe “essere tradotto in italiano con /ə/, usando la dibattutissima schwa”.
Dal 2021, gli utenti di Instagram e Twitter possono infatti indicare il genere in cui si riconoscono (she/her, he/him e they/them).
La “convivenza delle differenze”, come la definisce lo scrittore e divulgatore Fabrizio Acanfora, è ormai un’esigenza internazionale.
Come testimonia da Londra Alessandra Vescio, la caporedattrice di Bossy, associazione no profit e testata che si occupa di parità: “Il pronome they/them è già in uso nei paesi anglofoni per parlare di qualcuno di cui non si conosce l’identità, adesso viene usato anche come pronome personale da chi non si riconosce nel binarismo di genere. Anche qui c’è chi non capisce questa necessità, ma la consapevolezza è maggiore rispetto all’Italia”, tanto che persino l’autorevole vocabolario statunitense Merridiam-Webster ha scelto they come parola dell’anno nel 2019.
In Italia, dopo la casa editrice Effequ, che per prima ha iniziato a “sperimentare l’uso della schwa come norma redazionale nella saggistica”, come ha scritto Silvia Costantino ne L’indiscreto, questo simbolo ha iniziato a occupare pagine di saggistica e narrativa.
Solo per citarne alcune: le traduzioni di Star Wars. Last shot e Star Wars: Solo, Morgana. L’uomo ricco sono io di Mondadori, Scosse in classe edito da Settenove.
La stessa caporedattrice di Bossy, Vescio, cita il loro volume Anche questo è femminismo (edizioni Tlon) tra quelli che hanno fatto questa scelta.
Senza contare poi i fumetti, con i poster realizzati da Sio per Lucca Changes e le strisce dell’autore Zerocalcare pubblicate su Internazionale, i videogames (Neo Cab, Chicory: A Colorful Tale di We Are Muesli).
E da ultimo, ma non per rilevanza, il mondo tech: il 20 settembre 2021, con l’aggiornamento del nuovo sistema operativo iOS 15, Apple ha introdotto lo schwa nelle tastiere dei suoi dispositivi.
L’elenco potrebbe continuare, aggiungendo ai settori già elencati innumerevoli altri casi singoli; basti pensare alla pubblica amministrazione, con il caso del Comune di Castelfranco Emilia che ha inserito lo schwa nei post sui social (modulandone poi l’utilizzo a seconda dei canali e dei contesti), o alle imprese.
Ma se Gheno vede “con favore che lo schwa possa essere usato ad esempio in saggi e prodotti culturali”, ritiene anche necessario distinguere i contesti dove potrebbe invece risultare una scelta prematura per il pubblico, non sempre sufficiente sul piano linguistico e soprattutto non accessibile a tutte e tutti.
Perché, conclude, “quando si prova a cambiare un sistema, le persone che ne soffrono di più sono quelle che vivono le fasi di passaggio”.
Lo schwa, in conclusione, è certamente il “segnale di un’esigenza” ma non deve essere interpretato come una soluzione definitiva.
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