Che cos’è la violenza economica e perché è importante saperla riconoscere
“Vorrei chiedere un aumento, ma non credo di meritarmelo”.
“Penserà che non lo amo visto che non voglio condividere il conto?”
“Non sarò mai capace di gestire in autonomia le mie finanze”.
Quale donna non ha fatto un pensiero simile almeno una volta nella vita? Sono preoccupazioni e domande che hanno radici politico-culturali, frutto della diffusa e trasversale esclusione finanziaria di genere che, nei casi più gravi, può farsi violenza. Una forma di violenza più subdola e difficile da riconoscere, perché “non si vede”. Che ha a che fare con un argomento considerato ancora tabù, soprattutto per le donne: il denaro.
Le dimensioni del fenomeno
Mentre nel sistema di diritto italiano, civile e penale, la violenza economica non è considerata un reato determinato, ma può configurare diversi tipi di reati (maltrattamenti in famiglia, violenza privata, controllo e limitazione assoluta della libertà personale, violazione degli obblighi di assistenza familiare…), nel diritto internazionale è riconosciuta dalla così detta Convenzione di Istanbul del 2011. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica è infatti uno strumento giuridicamente vincolante in materia di diritto femminile. L’art. 3, nella definizione di “violenza economica”, colloca:
“Tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.
Negare quindi l’accesso alle risorse economiche, non fornire informazioni sulla situazione patrimoniale, non adempiere ai doveri di mantenimento stabiliti da leggi e sentenze; scoraggiare la donna nelle proprie scelte di vita, boicottare l’accesso e il mantenimento di un lavoro o degli studi. Nell’escalation della violenza, la persona abusante può arrivare a impedire alla donna di avere un proprio conto corrente, a falsificare la firma su documenti e intestazioni di beni mobili e immobili a proprio vantaggio. Costringendo così la donna a una relazione di dipendenza e di continua giustificazione di ogni spesa. Un danno economico e psicologico allo stesso tempo. Poiché l’abuso finanziario intacca autonomia, cura di sé, autostima.
I dati aggiornati dell’Istat, relativi alle donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza concordato con la rete nazionale dei Centri Antiviolenza nel 2021, ci dicono che il 38,8% del totale è stata vittima di violenza economica. L’andamento è confermato anche dall’ultimo report di D.i.Re. – Donne in rete contro la violenza, dove 1 donna su 3 (31,6%) ha dichiarato di aver subito violenza economica. In Emilia-Romagna, dove sono attivi 22 Centri antiviolenza e 49 Case rifugio, i numeri aumentano. Il quinto rapporto (2022) dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere rivela che il 40% delle donne che si sono rivolte ai Centri in regione ha subito violenza economica. Eppure, si tratta comunque di un fenomeno sottostimato, per via della difficoltà da parte dei Centri a rilevarlo e da parte delle donne stesse a riconoscere questa forma di violenza. Una fatica maggiore laddove il contesto di provenienza, privato e sociale, colloca l’abuso a fondamento del buon funzionamento famigliare.
Il ruolo dei servizi nel percorso di consapevolezza
Nel processo di riconoscimento di questa forma di violenza, che nella maggior parte dei casi non avviene in maniera autonoma, giocano un ruolo chiave gli operatori e le operatrici dei servizi di accoglienza. “Noi lavoriamo con donne che hanno subito violenza, ma non esclusivamente. La violenza economica è solo una parte della loro storia”, racconta Giorgia Olezzi, responsabile delle comunità di accoglienza per mamme e bambini della società cooperativa bolognese Open Group. Casa di Sara e La Quercia, ad esempio, sono due comunità di accoglienza residenziale gestite dalla cooperativa che ospitano madri, anche minorenni, con i propri bambini e bambine, e donne in gravidanza che vivono situazioni di difficoltà sociale, economica e relazionale. Tra dicembre 2016 e dicembre 2021, queste due strutture hanno accolto 59 famiglie; tra queste, 20 donne sono state accolte a seguito di violenza domestica subita (denunciata e non) o hanno sperimentato una o più forme di violenza riconosciute dalla Convezione di Istanbul.
“A volte è estremamente complesso aiutare a riconoscere la violenza economica, ed esempio quando si incontrano donne non scolarizzate, che non hanno una professione avviata. In questi casi va affrontato prima di tutto in un percorso di emancipazione della donna come individuo, affinché possa tornare a riconoscere il proprio desiderio e riacquistare uno spazio di potenzialità. Successivamente, le azioni e gli strumenti a disposizione possono essere diversi. Si va da progetti di educazione finanziaria all’accompagnamento ai servizi, come l’apertura di un Conto Corrente Postale, richiedere l’ISEE disgiunto al CAF… tutti strumenti di diritto che consentono alle donne di difendersi ed emanciparsi. Ci occupiamo anche di inserimento lavorativo, realizzando corsi di italiano o attivando tirocini formativi”. Per consulenze specifiche si rimanda ai Centri Antiviolenza del territorio, come la Casa delle Donne di Bologna o Mondo Donna, con i quali la società cooperativa opera in sinergia.
Affinché operatrici e operatori siano preparati a riconoscere queste forme di violenza, Open Group mette a disposizione dei e delle dipendenti, con cadenza annuale, dei percorsi di formazione specifici sulla differenza di genere e sugli stereotipi anche inconsapevoli (unconscious bias). “La chiave è: non imporre ma accompagnare, creare contesti sicuri, affinché sia la diretta interessata a prendere qualsiasi tipo di decisione”, conclude Olezzi. E inoltre, ha istituito una Commissione pari opportunità, un presidio interno a cui tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori possono rivolgersi in caso di discriminazione, di esclusione o di molestie.
Formare il personale per riconoscere la violenza
Su questo fronte, una delle principali realtà italiane impegnate nel diffondere la cultura della finanza etica, con azioni specifiche riguardanti la violenza economica di genere, è Fondazione Finanza Etica. Oltre a ricerche, progetti di formazione per donne inserite in percorsi di empowerment e bandi di sostegno a fondo perduto per progetti di imprenditoria femminili, la Fondazione sta promuovendo anche formazioni per operatori e operatrici di diversi ambiti. “Il progetto ‘Monetine’, realizzato tramite il bando “Mio denaro, mia la scelta”, interviene proprio su questo”, spiega Barbara Setti, che coordina l’attività di ricerca, erogazioni liberali e campaigning & advocacy per la Fondazione.
“Le linee di azione sono tre: focus group con le donne vittime di violenza; formazione finanziaria con operatori e operatrici dei Centri Antiviolenza, per riconoscere la violenza economica e supportare le vittime nei percorsi di autonomia economica e finanziaria (capire quando è il momento di aprire un conto corrente, dove è meglio aprirlo…); infine, formazione con gli operatori e le operatrici bancarie, per riconoscere la violenza di genere fin dallo sportello (la donna viene sempre accompagnata dal marito, parla solo lui, il conto è intestato al marito…) e rendere più difficile la vita di un potenziale abusatore”.
Prevenzione: educare le giovani generazioni
“Il primo passo, però, arriva ancora prima. Bisogna far capire a ragazze e ragazzi che il denaro è uno strumento prezioso e non deve far paura”, continua Setti, citando l’ultima indagine internazionale PISA – Programme for International Student Assessment, promossa dall’OCSE – Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (2018), che raccoglie tutti i risultati Invalsi europei. Qui l’Italia si colloca sotto la media europea (476 contro una media di 505) in quanto a competenze finanziarie di base. Non solo: in quanto a “esperienza finanziaria”, i giovani ragazzi italiani si posizionano all’ultimo posto della classifica, con un punteggio del 36,1% a fronte di una media OCSE del 51,5%; e se, in media OCSE, le ragazze hanno un punteggio del 2% più basso rispetto ai ragazzi, in Italia questo gap di genere arriva a toccare il 15%.
“Fondamentale – spiega Setti – è l’educazione famigliare: spiegare in maniera trasparente come vengono spesi i soldi, perché non deve essere un tabù. Per rendere autonome le ragazze, si può partire dalla gestione di una paghetta settimanale-mensile, fino all’utilizzo di applicazioni di bilancio familiare. Ci sono salvadanai virtuali molto semplici come quello fornito dall’app Satispay, che un poco alla volta consente in pochi mesi di raggiungere cifre ragguardevoli per un adolescente. Come Fondazione Finanza Etica, quello di cui ci occupiamo è l’educazione finanziaria nelle scuole, con un taglio critico. Significa non limitarsi a spiegare come si apre un conto corrente, ma anche imparare a capire come gli istituti di credito reimmettono i nostri soldi nella società”.
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