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“Abbiamo abbandonato una sponda del fiume, senza aver ancora raggiunto l’altra.” Intervista a Stefano Zamagni

Pronta ad aprire i battenti la XXII edizione de Le giornate di Bertinoro dal titolo “Riconoscersi. Includere per trasformare l’esistente” che si terrà il 14 e 15 ottobre.

L’edizione 2022 segna il ritorno in presenza alla Rocca di Bertinoro, luogo di pensiero e condivisione da sempre valore aggiunto dell’evento, ma sarà possibile anche seguire l’evento in diretta streaming sul sito e sulla pagina Facebook delle GdB e sul canale YouTube di AICCON.

Sono previsti oltre 40 relatori, 7 sessioni, 2 talk di approfondimento e 1 anteprima di presentazione dati a cura di Istat.

Sul sito dell’evento è disponibile il programma completo con tutti i protagonisti delle GdB 2022 ed è ancora possibile iscriversi online per seguire l’evento in streaming e ricevere in anteprima i materiali dei relatori.

Per fare il punto su questa edizione abbiamo sentito il prof. Stefano Zamagni ideatore e infaticabile promotore dell’iniziativa.

Il tema centrale del Giornate è il riconoscersi come presupposto di un’azione trasformativa corale. Come mai avete avvertito la necessità di puntare su questo tema?

Il termine riconoscimento deriva da thymos che Platone introduce nel Fedro per indicare un bisogno primario degli uomini: quello di riconoscere e di essere riconosciuti dagli altri. Questa idea ha attraversato i secoli inabissandosi per lungo tempo nella riflessione filosofica. Oggi ritengo stia tornando prepotentemente all’attenzione dei più, sospinta dai tanti movimenti di emancipazione sorti a partire dagli anni ’60 e ’70 del secolo scorso – cominciato dapprima con il femminismo e proseguito con i movimenti ambientalisti e dei diritti civili – che chiedono innanzitutto pieno riconoscimento. 

Chi può risolvere oggi questa domanda di riconoscimento?

Il soggetto collettivo che può sbloccare questa domanda riconoscimento è il terzo settore. Perché non può esserlo né lo Stato o l’ente pubblico, né tantomeno il mercato, cioè il mondo dell’impresa, perché non comprende il tema e soprattutto non è tra i suoi bisogni. Solo il terzo settore, in forza della sua moltitudine di forme, è in grado di ricucire un tessuto sociale lacerato.

Oggi assistiamo ad una ricchezza di esperienze nella società civile di gran lunga superiore alle proposte della politica organizzata: dalle tante forme di neo mutualismo fino alle al fiorire di forum, tavoli e alleanze di scopo. Perché tanta ricchezza, pur nella diversità,  non riesce a federarsi, a riconoscersi come soggetto unitario di una trasformazione auspicabile?

Domanda molto pertinente e che tocca un punto nevralgico. La risposta è duplice. Da una parte occorre dire che i processi di convergenza di tipo aggregativo richiedono tempi lunghi per attuarsi e che non basta percepire il bisogno e il rischio incombente per realizzarsi pienamente. 

Dall’altra parte c’è la resistenza di coloro che hanno fino a oggi condotto le danze: lo Stato e il mercato che ovviamente non accettano di buon grado di essere espropriati dalle loro funzioni.

Eppure, forse oggi più che mai, si può dire che “nel lungo periodo saremo tutti morti” per dirla con Keynes…

I tempi sono maturi. Ci vorrà ancora tempo, ma non credo più di 10 anni, prima che questo cambio di paradigma si affermi.

Nel corso di una recente intervista l’economista Paolo Santori, coordinatore di Economy of Francesco, ha affermato che va ripensato il concetto di proprietà, rimettendo al centro il ruolo della forma cooperativa dove proprietà e lavoro coincidono nella produzione di valore da distribuire equamente. Ma come contemplare un’ottica di “bene comune” se all’articolo 42 della Costituzione si dice che “La proprietà è pubblica o privata”?

È vero, va precisato che all’articolo 43 si fa riferimento alla proprietà comune, ma va constatato che fino a oggi si è ragionato perlopiù attraverso le categorie di proprietà privata e proprietà pubblica.

L’approccio binario Stato-mercato rendono la cooperazione il terzo settore come una sorta di “transgender economico”. Non pensa che bisognerebbe andare a ripescare, magari nelle “teorie queer”, il tema della differenza e dell’alterità di questo sistema economico?

È vero e questo sta avvenendo. Bisogna partire dalla dalla constatazione che viviamo una transizione ovvero un’epoca di crisi in cui abbiamo abbandonato una sponda del fiume senza ancora essere arrivati all’altra. Certo, siamo in una situazione di attesa e nel frattempo chi si colloca sulla sponda che abbiamo lasciato, fa resistenza perché vuole mantenere la realtà dalla sua parte. Però, come la storia ci ha insegnato certi processi sono irreversibili soprattutto quando la situazione diventa insostenibile per la società e la gente apre gli occhi. Come diceva Keynes bisogna liberarsi dalle vecchie categorie. Ecco perché ci serve più che la storia, la grande filosofia. La storia serve nei momenti ordinari, ma noi oggi viviamo momenti straordinari.

Un’ultima ultima domanda: perché sarebbe opportuno, per chi ha vent’anni o poco più seguire le giornate di Bertinoro?

Innanzitutto perché le Giornate di Bertinoro parlano di economia civile. Non di economia politica, che asseconda la politica, cioè lo Stato, ma di economia che asseconda la società civile. E poi perché questo evento ha 23 anni e continua a esserci anche senza investimenti in pubblicità e fa sold out prima ancora di presentare il suo programma. Inoltre perché le GdB non sono uno spazio, ma un luogo che genera significati e dal quale si esce arricchiti. Infine perché abbiamo l’ambizione di offrire pensiero incarnato nell’azione perché oggi non basta la sola azione, come non basta il solo pensiero astratto. Quello che serve è un pensiero che orienta l’azione. Un pensiero forward looking: lungimirante.

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