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Dal Lockdown al Dowshift. Il nuovo ciclo di sopravvivenza

Non è facile passare dal lockdown al downshift. La prima parola l’abbiamo imparata in fretta. Chiudendo la porta di casa e ascoltando in tv le istruzioni d’uso per una vita di clausura.

Downshift ci toccherà impararla, e in fretta temo. 

Non è difficile a prima vista. Vuol dire scalare la marcia, rallentare. Assestarsi su un sistema meno instabile; come quando facciamo il downgrade del sistema operativo alla versione precedente per ripristinarne la funzionalità di base.

Non è facile, nella realtà. Ché sa essere violenta, soprattutto quando la porta è aperta, ma le possibilità di uscire si riducono. Quando ci tocca spostare l’attenzione, dai beni indispensabili (cibo e salute) al super indispensabile: l’energia. 

Che non vedi, ma che è dappertutto. 

E qui il gioco si fa duro.

Il quadro di fondo ce lo disegna l’Istat col suo indice NIC, ovvero l’inflazione che, trainata dagli alti costi dell’energia, tira su i prezzi di quello che ci serve per vivere: bere, mangiare, scaldarsi, muoversi.

Il sole 24 ore – 1 settembre 2022

Sono i bisogni primari verso i quali bisogna retrocedere per vivere. O meglio, per sopravvivere. Anche lavorando. Lo dimostrano i dati Istat 2021, in attesa di quelli peggiori del 2022, relativi alle famiglie in condizioni di povertà relativa: circa 2,9 milioni (l’11,1%, contro il 10,1% del 2020) per un totale di quasi 8,8 milioni di individui (14,8%, contro il 13,5%).

Un nuovo ciclo della sopravvivenza

Il guaio è che l’energia non la vedi perchè sa nascondersi bene. Si cela nel cibo e negli spostamenti, nel lavoro e nella tecnologia che sembra confortare le nostre vite.

Difficile averci a che fare con una roba apparentemente impalpabile, quando per anni nessuno ti ha educato a vederla. Eppure niente è più concreto. 

L’energia è sotto i nostri occhi. In tanti piccoli gesti, come quello di mettere in moto l’auto, accendere il computer o il riscaldamento di casa. Basta un tocco. Semplice, ma che può essere costoso: oltre misura.

Ecco che, mai come oggi, il lavoro (per chi ce l’ha) diventa dissipazione di energia dei nostri corpi, per ottenere il denaro necessario a pagare l’energia indispensabile per vivere: nutrirsi, scaldarsi, spostarsi.

Dopo il back to basic della pandemia che ci ha mostrato quanto fossero importanti i beni essenziali e il sistema sanitario, eccoci piombare in un nuovo ciclo della sopravvivenza. 

Che ci scaraventa giù dalla piramide di Maslow con buona pace di tutti quegli altri bisogni che non sono primari. L’impatto al suolo non è indolore perché conferma la nostra essenza di Homo Laborans di questo inizio millennio: esseri umani destinati a consumarsi per rimanere in vita.

Primum philosophari

Siamo giunti al punto di vivere per vivere. Con i desideri, il senso e il possibile, evaporati sull’altare del Primum vivere deinde philosophari. 

E invece, mai come oggi, servirebbe il “primum philosophari”. Per capire quali comodità siamo disposti a sacrificare. E per guardare in faccia una realtà che pone domande nuove. Non semplici cambiamenti, ma trasformazioni profonde. Perché il semplice cambiamento non basterà. E non basterà l’informazione ridotta in pillole per una vita più green. 

Così come non basteranno gli attesi spot della Presidenza del Consiglio approntati in fretta e furia per propinarci “spinte gentili” dell’ultim’ora: buone azioni virtuose, all’insegna del risparmio. Magari in prima serata, assieme a tanti altri spot come quello di Anna la bambina estasiata davanti a uno scaffale pieno di preparati per budino che, quando la mamma le chiede quali vuole, Anna risponde candidamente: “Tutti!”.

Budino Elah spot pubblicitario 2021

È difficile che Anna possa farcela nel nuovo scenario che incombe; e neppure noi adulti ce la faremo finché rimarremo nell’universo del cambiamento, che cerca soluzioni alternative d’emergenza, come l’affannoso inseguimento di altri fornitori per affrancarsi dal gas di Putin. Con altro gas. 

Quello che serve è una trasformazione che parta da domande nuove e quasi impronunciabili. Perchè siamo ridotti così? Perché ci siamo intrappolati in questa condizione? Perché abbiamo organizzato la nostra vita in questo modo assurdo? È possibile cambiare le regole del gioco? O dobbiamo ancora inchinarci al “there is no alternative” (TINA) di thatcheriana memoria?

Proviamo per finta, ché tanto lo so che non ci credete. 

Se stabilissimo che l’obiettivo dell’Homo Sapiens del terzo millennio fosse quello di rigenerare i cicli naturali, il pieno dispiegamento del lavoro socialmente utile e l’equa ripartizione della ricchezza prodotta, riusciremmo forse a governare una decrescita indolore? A renderla addirittura desiderabile?

Se n’è accorto anche Macron in Francia quando ha detto giorni fa che siamo alla “fine dell’era dell’abbondanza”.

E allora  forse è il caso di inaugurare quella dell’abbastanza. Cominciando a ristrutturare profondamente il concetto di ricchezza appiattito miserabilmente sulla quantità di beni e di denaro posseduti.

Fermi tutti

Non sarà semplice capire il “quanto basta”, ma il downshift in corso sta sparigliando le carte e forse, il trauma, potrà aiutarci a costruire nuova consapevolezza energetica; per provare a uscire dalla giostra che impazza. E che adesso si inceppa. Per impossibilità o per prudenza. O perché cominciamo a capire che non è il caso di agitarsi troppo, perché più ti muovi e più consumi e quindi, più hai bisogno di trovare energia per muoverti. 

Per troppo tempo abbiamo calcato il mondo contando su due strategie antiche come il nostro cervello rettile, e che ancora caratterizzano il nostro pensiero veloce: attacca o scappa. 

Due strategie che oggi risultano troppo energivore. E che vanno sostituite col freezing. L’immobilità. Fingersi morti come certi animali. Per continuare a vivere, ma a battiti rallentati. 

Trovando il tempo per ripensare tutto. Il lavoro: fino alle grandi dimissioni; la tecnologia: fino al digital detox; la procreazione: fino al childfree; la politica: fino all’astensione di massa.

C’è un concetto del taoismo cinese contenuto nel Tao Te Ching, che forse rappresenta questo spirito dei tempi con cui ci toccherà fare i conti. È il wu wei che letteralmente vuol dire “non avere” (wu) “azione” (wei), ovvero non fare nulla, ma anche agire senza agire, agire col minimo sforzo. Insomma quel tanto che basta ad allinearci meglio con un mondo, a cui non potrebbe che giovare un nostro approccio più sobrio e frugale.

Wu Wei

La lingua del Capitalismo

Ma sobrietà e parsimonia non sono concetti che appartengono alla lingua del Capitalismo e probabilmente neppure a quella del Socialismo. 

Se il socialismo secondo George Steiner procedeva con “la furia dell’adesso”, il turbo capitalismo ci ha insegnato la furia del movimento h24. L’accelerazione consumistica, che ci ha trasformato in squali incapaci di fermarsi. Sempre in cerca di ossigeno, che nelle società avanzate è profitto, denaro: utopia liofilizzata, che tutto può diventare.

E quando ci fermiamo, è solo perché possiamo far lavorare i soldi che producono rendimenti. Come quegli squali che si possono riposare solo mettendosi a favore di corrente.

Dice Massimo Cacciari ne “Il lavoro dello spirito” (Adelphi 2020) “ciò che costituisce il fondamento del sistema e del potere capitalistico non è la produzione di merci in quanto tale, bensì piuttosto la produzione del loro incessante consumo”.

Eccola la trappola. 

Doppio legame

Una trappola che esaspera produzione e consumi, mentre il pianeta non è più in grado di sostenere questa espansione. 

Il cittadino si trova oggi, in una sorta di doppio legame schizogeno che ha un nome e un cognome, Consumismo Capitalistico: se consumi sfasci il pianeta e metti a rischio l’umanità, se non consumi crei recessione e disoccupazione.

Il consumismo è endemico ormai e il capitalismo sopravvive con le sue varianti generate dallo stesso ceppo. Ce n’è per tutti i gusti. Dal capitalismo d’impatto all’eco-sviluppo, dal capitalismo delle piattaforme a quello delle b-corp che sono di nuovo lì a prometterci una crescita infinita in salsa green, ma nello stesso mondo finito di sempre; quando sarebbe ora di dire senza titubanza che è finito il tempo delle “magnifiche sorti e progressive”. 

Che non ci sarà nessun gocciolamento (trickle down) a salvarci dalle disuguaglianze crescenti. E che la proposta nostrana di Flat Tax si fonda sulla grande fandonia che una politica favorevole a chi detiene grandi ricchezze possa arricchire anche i meno abbienti per gocciolamento. Roba da secolo scorso, per gente che continua a scambiare il vaso di Pandora che abbiamo aperto con la cornucopia dei consumi che creava estasi nei tempi andati. E che non credo torneranno.

I tempi nuovi, per fortuna, stanno abbozzando simboli nuovi e parole nuove, che però fatichiamo a metabolizzare. 

Decrescita no grazie

In un siffatto contesto modellato dal semio-capitalismo, va da sé che la parsimonia (per non dire la decrescita) sia vista con malanimo e assimilata alla rinuncia, all’indigenza e tutto sommato all’infelicità. Il problema è che non siamo abituati antropologicamente a pensare le nostre vite “fuori dalla scatola” del ciclo lineare della produzione di cose: dell’estrazione, produzione, distribuzione, consumo e discarica.

La Storia delle Cose di Annie Leonard

Siamo talmente abituati a pensarci come soggetti con esigenze illimitate (intese come desiderio di possesso o utilizzo di beni e servizi) che non badiamo più ai fattori produttivi che sono limitati (beni naturali e forza lavoro). E facciamo affidamento sul “doping” tecnologico che sposta la frontiera della produzione e dell’efficienza, provocando un’ulteriore torsione antropologica dei sapiens. Rendendoli sempre più ricchi di connessioni e sempre più poveri di congiunzioni comunitarie vere; etiche, estetiche ed erotiche, dice Franco (Bifo) Berardi in E: La congiunzione (Nero edizioni – 2021)

Per fare downshift ci vuole un altro mindset e noi non lo abbiamo perché siamo stati “programmati” per consumare e quindi siamo anche altamente inadatti a educare alla parsimonia e alla sobrietà.

È normale perciò che si levi il grido di dolore delle famiglie e delle imprese. Che però non meritano tutte la stessa attenzione. 

Ad esempio, è una questione nazionale se chiude il 10-15 % delle sale Bingo nel nostro Paese, come lamenta l’associazione che le rappresenta (Ascob)? 

Non mi sembra una tragedia visto che quei luoghi sono il teatro di tante tragedie del gioco d’azzardo, che andrebbe contrastato seriamente, magari impiegando quegli stessi lavoratori diventati esuberi.

Privatizzare i profitti e socializzare le perdite

E poi ci sono le aziende, che non sono tutte uguali – produrre cibo o gadget da spazzatura non è la stessa cosa – ma tutte pensano con uno schema identico: privatizzare i profitti e socializzare le perdite. 

Quando basterebbe che gli aiuti, spesso sacrosanti, anziché a fondo perduto, fossero prestiti, magari a tasso zero, per non diventare macigno su tutti noi e sulle future generazioni. 

Servirebbe anche nelle imprese, un management più parsimonioso anche nei compensi che riescono a destinarsi; e ci vorrebbero più imprese che magari facessero coincidere, di più di quanto accada oggi, proprietà e lavoro, come accade con certe cooperative (Workers buy out) nate sulle ceneri di aziende destinate a fallire, perché la proprietà non ci stava più dentro. Tradotto: perché non faceva abbastanza profitti per sé. 

Aziende che dopo il diktat nostrano del Ministro Brunetta e quello globale di Elon Musk sembravano voler ridimensionare lo smart working e che invece adesso già pensano di rispolverare, mica per bilanciare vita e lavoro dei propri lavoratori, ma per contenere i costi aziendali esternalizzandoli nella bolletta di casa.

Di chi lavora. 

Deragliare per vedere meglio

Fuori da questo schema c’è pochissimo, ma è un “poco” prezioso che merita attenzione. 

Un esempio? Ceramiche noi, un’azienda destinata alla chiusura e che dal 2019 diventa cooperativa, raddoppia i dipendenti e quadruplica i ricavi e che adesso in piena crisi energetica per risparmiare sulla bolletta si è messa a lavorare prima dell’alba.

Loro, il trauma lo stanno affrontando cooperando e cercando insieme di elaborare una coscienza della mutazione che è la vera sfida di tutti i changemakers di domani. 

Una sfida che troppi non riusciranno a cogliere perché troppo condizionati da una mente cablata su modelli di crescita lineare e irretita dalle tre sirene del consumismo: confort, controllo e convenienza, che in verità cominciano, nell’era del downshift, a emanare odore di rancido.

Ma quale confort se mi devo vendere un rene per scaldarmi?

Ma quale controllo se i prezzi delle bollette diventano una sorpresa? 

Ma quale convenienza quando l’inflazione mi mangia il salario?

E mentre il cervello deraglia, rimane la speranza che andare fuori strada sia forse l’unico modo per vedere, con più chiarezza, quale sarà il cammino da percorrere.

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One Comment
  1. Bibi Bellini

    la cooperativa Ceramiche Noi, il wbo di Città di Castello oggi agli onori delle cronache per essere stata citata dalla presidente della Commissione UE come caso esemplare di utilizzo responsabile dell’energia, sarà ospite, alle 17.40 circa, di Menabò, il contenitore pomeridiano del GR 1 RAI. Potete ascoltare il programma in FM sulle frequenze di Radio Uno o in streaming su raiplaysound.it/radio1

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