Ho visto Zerocalcare e Giordano Bruno alle prese con eroici furori.
Entrambi bruciavano e imprecavano.
Il primo brucia ancora, ma senza perdersi d’animo.
Il secondo invece urlava muto: i versi suoi.
Scritti 15 anni prima di quel 17 febbraio in cui fu arso vivo in piazza Campo de’ Fiori a Roma nel 1600.
Nessuno lo sentì perché aveva la lingua trafitta dal chiodo ricurvo di una mordacchia che gli avevano applicato sulla bocca, affinché non potesse parlare.
Perché le sue parole non sapevano abiurare.
Perché le sue parole facevano tremare.
“Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam”
“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla”.
Lo aveva detto alcuni giorni prima ai suoi inquisitori.
Dopo che questi ebbero terminato la lettura della sentenza che lo condannava al rogo.
Ma io lo so cosa disse.
Perché parlava di sé evocando Icarus.
–
Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio,
Quanto piú sott’il piè l’aria mi scorgo,
Piú le veloci penne al vento porgo,
E spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio.
Né del figliuol di Dedalo il fin rio
Fa che giú pieghi, anzi via piú risorgo.
Ch’i’ cadrò morto a terra, ben m’accorgo,
Ma qual vita pareggia al morir mio?
La voce del mio cor per l’aria sento:
– Ove mi porti, temerario? China,
Che raro è senza duol tropp’ardimento. –
Non temer, respond’io, l’alta ruina.
Fendi sicur le nubi, e muor contento,
S’il ciel sí illustre morte ne destina.
–
Giordano Bruno – De gli Eroici Furori (1585) Harmakis Edizioni