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La neuroscienza culturale applicata ai cibi del futuro: intervista a Mario Ubiali

Agricoltura di precisione, carne coltivata, farina di insetto, patatine di alga. Oggi sono tanti i cibi del futuro che vengono ideati con un obiettivo molto ambizioso: abbattere le emissioni inquinanti, fornire proteine alternative e andare verso un’alimentazione più sana, oltre che sostenibile per gli animali e per l’ambiente.

Mario Ubiali è il fondatore di Thimus, azienda italiana che aiuta i produttori alimentari a mettere a punto i cibi del futuro, inventandoli da zero o migliorando quelli esistenti. Tra i suoi clienti ci sono aziende di tutto il mondo, che vogliono sperimentare nuovi gusti e testare alimenti che potrebbero entrare nel mercato, con uno scopo: capire cosa piace al palato di chi assaggia.

Da sette anni Thimus applica la neuroscienza al di fuori dei contesti clinici: si parla così di “neuroscienza culturale”, uno strumento importante per migliorare i sistemi alimentari e orientare l’industria verso le reali necessità della popolazione. Dal 2019 l’azienda ha aperto un ufficio nella Silicon Valley, e i suoi esperti girano per il mondo per studiare le soluzioni più innovative in materia di alimentazione.

Mario Ubiali, fondatore e CEO di Thimus

In cosa consiste la neuroscienza culturale?

La neuroscienza culturale descrive i processi emotivi e cognitivi degli esseri umani mettendo insieme sostanzialmente due fonti di informazione. Da un lato ci sono i dati sull’identità sociale, culturale, demografica di un individuo. Dall’altro lato ci sono dati che derivano da un elettroencefalogramma, che raccoglie il segnale neurofisiologico – di tipo elettrico – e lo digitalizza: gli algoritmi poi lo interpretano per individuare i mental states che attraversiamo quando assaggiamo un nuovo cibo.

L’elettroencefalogramma rivela tutto ciò che prova una persona mangiando un certo alimento?

No, questo è un mito da sfatare: il dato del segnale neurofisiologico non ha un significato assoluto. Quando parliamo del rapporto degli esseri umani con il cibo, le spiegazioni semplici non funzionano: le componenti che entrano in gioco sono tante. Oltre all’elettroencefalogramma usiamo altri tipi di misurazioni: ad esempio con un questionario misuriamo la scala di neofobia, che esprime numericamente il livello di propensione a provare qualcosa di nuovo. È una misura psicometrica che viene associata a quanto misurato con l’elettroencefalogramma.

Quando assaggiamo un cibo o una bevanda, quali fasi attraversiamo?

Ogni assaggio è il frutto di una successione di esperienze sensoriali diverse. Si parte dallo stadio visivo, che è caratterizzato dall’osservare ciò che stiamo per mettere in bocca, seguito dallo stadio olfattivo: la componente aromatica è fortemente legata al ricordo e alla memoria. Poi c’è l’assaggio vero e proprio: nei primissimi secondi nella bocca si attiva il senso del tatto, che ci permette di valutare la consistenza dell’alimento, poi del gusto, e infine del retrogusto, che non svanisce subito e resta per più tempo. Dopo la deglutizione del primo boccone, riscontriamo un maggiore carico cognitivo nel cervello: è solo allora che subentra la parte razionale e che la persona decide se mangerà ancora quel piatto in futuro.

Quanto i nostri gusti sono influenzati dal contesto in cui siamo nati e cresciuti?

I tratti del gusto sono anche culturali. Come percepiscono gli italiani l’acidità nel caffè espresso? Come viene avvertito l’amaro in Asia? Tutto questo è misurabile. Non dipende solo dalla cultura e dal gusto personale, ma anche dalla genetica: sembra strano, ma i nostri gusti sono influenzati da quelli dei nostri nonni.

In che modo la neuroscienza culturale può aiutare a mettere a punto i cibi del futuro?

La neuroscienza culturale deve essere uno dei pilastri nell’ideare i cibi del futuro, perché ci aiuta a creare alimenti adatti ai bisogni reali dell’essere umano. Tutti parlano di cibi ricreati in laboratorio, di proteine alternative e di finta carne: gli investitori speculano con manovre da milioni di dollari, ma il dibattito non si può ridurre a questo. È pericoloso credere che il futuro del cibo sia monocorde: non dobbiamo cadere in una iper semplificazione, sarebbe l’olocausto delle differenze culturali.  

Quale dovrebbe essere allora la soluzione per i sistemi alimentari del futuro?

Siamo ancora troppo incentrati su un paradigma occidentale: anziché puntare così tanto sulla tecnologia per trasformare il cibo, perché invece non recuperiamo le filiere corte locali? Perché non proviamo a utilizzare in modo proficuo – ed economico – gli ingredienti presenti da secoli sui nostri territori? Il food è un tema politico: il rapporto degli esseri umani con il cibo è molto più profondo di quanto pensiamo. 

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