“Parole che cambiano”: la lingua inclusiva come spazio pubblico da riconquistare
Come rendere il nostro linguaggio inclusivo? Cos’è la shwa? Assessora, avvocata, architetta: perché la declinazione al femminile di queste parole è così controversa? Quale rapporto c’è tra lingua e potere? Queste sono alcune delle domande affrontate durante l’incontro “Parole che cambiano”, il quarto e ultimo del ciclo “Cose che cambiano”, promosso dalla Fondazione Unipolis in collaborazione con il DAMSLab dell’Università di Bologna, che l’ha ospitato, e il Corso di alta formazione in innovatori culturali.
Dopo aver parlato di città, di politiche, di culture, il 30 maggio l’ultimo appuntamento si è concentrato sulle parole che cambiano e si trasformano, con un’intervista doppia alla sociolinguista Vera Gheno e al manager culturale Emmanuele Curti, che hanno dialogato con Roberta Franceschinelli, project manager di Fondazione Unipolis.
Vera Gheno: “La sociolinguista è una materia di confine tra linguistica e sociologia: si occupa della relazione tra le parole e le persone. Attraverso la sociolinguistica, si studia come le parole vengono usate dalle persone e dalle comunità, e cosa le parole ci raccontano rispetto a coloro che le utilizzano. C’è un centro dove la lingua si solidifica, si cristallizza, e poi c’è il margine, la periferia: è lì che a livello linguistico, e non solo, avvengono le trasformazioni e i cambiamenti più interessanti”.
Emmanuele Curti: “Tendiamo a dimenticare che molte delle nostre lingue sono nate in modo un po’ artificiale. L’italiano, ad esempio, è stata strutturato per come lo conosciamo adesso nell’Ottocento, quando si delineavano anche i confini dello stato moderno. Oggi siamo di fronte a una crisi dello stato moderno, anche della democrazia: questa difesa a spada tratta della lingua tradisce il timore che proviamo per un disfacimento ben più ampio”.
Vera Gheno: “Ci può essere una lingua immobile, basta che sia morta. Una lingua viva, per sua natura, cambia. Se noi in quanto singoli siamo in continua trasformazione, se la comunità è in continua trasformazione, se la realtà è in continua trasformazione, come potrebbe la lingua che crea connessioni tra queste sfere essere fissa? Oggi non basta insegnare la grammatica, che non permette di cogliere la complessità del sistema lingua. Bisognerebbe anche insegnare come nasce una lingua, come si evolve, in che modo vanno contestualizzati gli errori, che poi errori non sono, dato che spesso sono espressione di nuove traiettorie che sta prendendo la lingua”.
Emmanuele Curti: “Oggi ci sarebbe la necessità di elaborare parole nuove, per raccontare modi diversi di fare cultura e arte nel paese. Nell’epoca industriale, la cultura era quella cosa che si faceva nel dopo lavoro. Oggi è cambiato radicalmente il sistema del lavoro, e la cultura si è addentrata in uno spazio più ampio. Ecco perché si dovrebbe costruire insieme: non ci sono gli intellettuali da un lato e il pubblico dall’altro. La cultura dovrebbe uscire dal modello tradizionale: passare dal consumo alla rielaborazione. Ecco perché servono parole nuove.
Vera Gheno: “Io per prima non mi sento produttrice di cultura, ma piuttosto traduttrice di cultura. La cultura è un concetto reticolare: io sono un nodo di una rete. Un ripetitore. L’ambiente culturale italiano continua ad essere molto elitista. Tanto è vero che io, che faccio divulgazione, sono risultata assolutamente secondaria rispetto a chi millanta di fare “alta cultura”. Ma gli intellettuali non devono fare l’errore di chiudersi nella loro torre d’avorio, perché altrimenti diventano come un granaio che non viene mai aperto e poi marcisce. A cosa servono le sementi se poi non vengono piantate nella terra?”
Vera Gheno: “Don Milani diceva: la lingua la fanno i poveri, poi i ricchi la prendono e la usano contro di loro. Chi ha potere dice che ‘la lingua la fanno i parlanti’, ma poi decide cosa è corretto dire e cosa no. Pensiamo a quanto stigma linguistico c’è ancora oggi in Italia: quanti curriculum vengono scartati perché c’è un ‘qual è’ con l’apostrofo. Quante volte una persona viene considerata ignorante perché non usa i congiuntivi”.
Emmanuele Curti: “Lingua è potere. Nella mia vita precedente ero un professore di archeologia, ma sono uscito dall’accademia perché non mi stavano più bene quelle regole. I beni culturali oggi non sono più a disposizione delle comunità. La cultura occidentale ha avuto un’invenzione bellissima: lo spazio pubblico. Nell’agorà greca c’erano dei cippi su cui era scritta la frase ‘Io sono l’agorà’: lo spazio era definita da parole. Nel foro romano, anche i templa erano definiti da parole. Oggi la sfida è capire, dentro lo spazio comune, quali sono le parole che contengono il concetto di ‘pubblico’.”
Vera Gheno: “Stiamo assistendo a una sparizione anche fisica dei luoghi pubblici: nelle periferie non ci sono piazze, e quelle che ci sono non riescono a diventare uno spazio di aggregazione. La microsocialità però è importantissima per gli esseri umani, lo abbiamo capito nel lockdown. E oggi rendere privati i gradini esterni delle chiese priva le persone della città dello spazio della città. La fatica di sentirsi parte di una comunità è collegata alla fatica di trovare luoghi pubblici”.
Emmanuele Curti: “A scuola, oggi, le mie figlie studiano le stesse cose che studiavo io quarant’anni fa. Certo, ci sono dei pilastri che vanno conosciuti, ma ho l’impressione che alcune cose continuiamo a ripeterle sempre allo stesso modo. Ripartendo dalla nostra tradizione, dovremmo però anche generare qualcosa di nuovo. C’è una forte necessità di ripensamento: chi produce cultura deve costruire domande, sollecitazioni su cui andare a muoversi”.
Vera Gheno: “Le parole che utilizziamo raccontano tanto di chi siamo. Più l’immagine che le nostre parole creano è consapevole, meglio la si può gestire. Le parole mostrano agli altri chi siamo, chi pensiamo di essere e anche chi vorremmo essere, diceva Giorgio Cardona. Ma anche quando definiamo altre persone attraverso le parole, in contemporanea definiamo noi stessi: se io offendo una persona insultandola perché ha la pelle nera, contemporaneamente definisco me stesso”.
Emmanuele Curti: “Oggi abbiamo una destra al governo che ci chiede di rispettare la lingua, e contemporaneamente parla di sostituzione etnica. Noi tra cent’anni saremo una società mista, parleremo un mix di molte lingue. Io non amo più determinate parole, come ‘identità’: è stata una parola importante, ma è stata inventata negli anni Cinquanta e Sessanta, nel momento della decolonizzazione. Oggi è un boomerang, un’arma brandita dalla destra. Un’altra parola sempre più contraddittoria è ‘resilienza’: in bocca alla politica sembra voler dire ‘cavatevela da soli’, mentre andrebbe ripresa per riappropriarcene. E poi mancano parole per parlare di ecologia, delle relazioni con il non-umano. Abbiamo un mondo che ha bisogno di generare di nuove parole”.
Vera Gheno: “C’è da sfatare l’idea del potere magico della parola. La parola non può cambiare la realtà, come se avesse una bacchetta magica. Può però risignificare la realtà e dare un’altra visione del mondo. Comunque, questo non si può imporre: l’unica cosa che si può fare è ragionare sulle parole e creare maggiore consapevolezza. La riflessione sulla lingua serve ad allargare lo sguardo: aggiungere parole ci permette di cogliere più sfumature. Non bisogna cercare di creare una nuova norma, ma relativizzare il punto di vista”.
Emmanuele Curti: “Avvocata, sindaca, assessora… Che valore ha declinare al femminile i sostantivi? Per me il problema non è come chiamare le persone, ma il riconoscimento del ruolo. Queste categorie sono ancora inserite dentro a una mascolinità tossica. La schwa aiuta a spostare lo sguardo, a portare una prospettiva nuova”.
Vera Gheno: “Ciò che si nomina si vede meglio. Nel momento in cui nomino una donna che fa un lavoro, abituo il mio cervello all’alternanza dei generi in quel ruolo. Quando Meloni è stata eletta, il suo primo atto pubblico è stato quello di inviare una circolare per essere chiamata ‘il presidente’ al maschile. La destra nega l’importanza dei femminili. Quando una persona mi chiede di usare il maschile, le chiedo il perché. La risposta più frequente è: ‘Per quieto vivere’. E ci sta: non tutte le persone sono nate per stare sulle barricate”.
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