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“La rigenerazione urbana si fa con le persone, non con i valori immobiliari”. Intervista a Elena Granata

Cos’è la rigenerazione urbana? E’ una galassia di politiche, pratiche e attori. Difficile dare una definizione univoca, ma diciamo così: in Italia siamo molto bravi a rigenerare gli spazi, a dare valore alla dimensione fisica dei luoghi, molto meno a fare la stessa cosa con l’economia e le relazioni sociali. Per me la rigenerazione è trovare un nuovo senso a luoghi che quel senso l’hanno perso. Come lo si fa? Con il coinvolgimento delle persone, perché senza le persone è impensabile fare una buona rigenerazione”. 

Elena Granata è un’urbanista, professoressa al Politecnico di Milano e autrice del libro “Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo”. Per Granata la rigenerazione urbana si può fare solo se la si intende come un modo per ridare senso agli spazi e alle comunità che li utilizzano e attraversano. 

Reportage. Rigenerazione urbana: riqualificare le periferie, far rinascere le comunità

Come si fa a fare una buona rigenerazione urbana?
Parto da quello che non dobbiamo fare, e cioè pensare a partire dagli edifici, partire dagli spazi fisici,  solo dopo porci la domanda: e adesso di tutto questo che me ne faccio? Bisogna sempre partire dalla vita e dalle persone.

La rigenerazione urbana è sulla bocca della politica. Che dovrebbero fare i policymaker?
Ci sono tre formule magiche che sono: conoscere quello di cui si parla, fare esperienza e stare nei luoghi, avere immaginazione e cioè la capacità di guardare oltre i problemi, di immaginare le cose in una maniera nuova e differente rispetto a come le abbiamo pensate. 

Spesso Il concetto di rigenerazione urbana è associato a grandi piani di finanziamento e di costruzione.
In Italia l’idea di rigenerazione è spesso legata alla valorizzazione immobiliare, e quindi noi sentiamo grandi investitori del settore edilizio ma anche politici parlare solo di questa dimensione. Una rigenerazione monodimensionale di questo tipo ha molto a che fare con la rendita immobiliare.

Invece?
Invece la rigenerazione dovrebbe partire dall’esistente. Dovrebbe essere un’operazione di sottrazione, non solo di addizione. Dobbiamo essere capaci di togliere, di semplificare, di far funzionare quello che già abbiamo tra le mani. Ma questo, diciamo, è molto lontano da quella cultura edilizia che noi ci portiamo dietro almeno da cinquant’anni, che vede nell’edilizia il volano dell’economia. L’edilizia arricchisce solo qualcuno. La rigenerazione urbana invece dovrebbe arricchire tutti. Arricchire cosa? Non solo l’economia, ma anche la qualità della vita, della salute, la salubrità, la piacevolezza e l’abitabilità degli ambienti. Tutte cose che in realtà, quando si parla di rigenerazione, spesso sono considerate accessori.

Lei ha scritto un libro che si chiama Placemaker. Chi sono? Perché sono così importanti dal suo punto di vista?
I placemaker sono importanti intanto perché lì non li raccontiamo, non li osserviamo, sfuggono alle statistiche e le loro sono competenze atipiche che non stanno dentro nessun contenitore. Si tratta di un tipo di attore che può arrivare dal mondo dell’architettura e dell’urbanistica, ma anche dalla sociologia, dai mondi cooperativi, può venire da mondi ecclesiali,  dall’attivismo, dalla partecipazione. I placemaker sono persone che si fanno carico dei problemi e delle comunità, con un’attitudine alla regia, al coordinamento delle attività. Quindi non necessariamente sono portatori di una competenza tecnica. L’architetto che costruisce, l’urbanistica che pianifica, il sociologo che interpreta, i playmaker sono inventori dei luoghi. Coloro che, partendo da un’area periferica, ritrovano il senso di una comunità, di una cava abbandonata, di un borgo non più abitato.

Come si fa ad operare un placemaker? 
Non da solo. L’attività di placemaking è un’attività corale e collettiva, però ha bisogno dell’estro di qualcuno che prende l’iniziativa e sa trasformare un’idea in un progetto. Tra l’idea e il progetto c’è di mezzo il trovare i soldi, far funzionare le cose, istruire la governance, attivare la cooperazione, mobilitare i cittadini, sensibilizzare. 

Un lavoro che ancora non è stato formalizzato.
È un lavoro molto contemporaneo, è il lavoro del futuro. Io dico sempre i miei studenti: “voi siete potenzialmente tutti placemaker”. Cioè avete davanti la possibilità di formarvi con un paniere di competenze che vanno dall’attivazione sociale alla capacità di far quadrare i conti e costruire un business plan. Questo, al momento, lo si impara solo facendo. Fai un master, poi vai all’estero, poi ritorni e impari dalla pratica. Ecco, dobbiamo proprio arrivarci così? Forse è il tempo che questo mestiere abbia un luogo di formazione dedicato. Nell’attività di rigenerazione urbana e di placemaking i soldi non sono quindi la parte più importante. A volte i soldi sono il principale impedimento, nel senso che rischiamo di avere i finanziamenti ma non avere le idee. Non basta saperli spendere, bisogna attivare processi legati ai luoghi e alle loro comunità. Guardate al bonus facciate: non è stato un grande programma di ripensamento e rigenerazione dei luoghi, è stato solo un modo per fare precipitare sul tessuto urbano soldi a pioggia, senza portare qualità. Il rischio dietro l’angolo è sempre quello dell’operazione di maquillage.

In tutto questo quale può essere il ruolo delle amministrazioni?
Le amministrazioni sono quelle che possono avviare processi di facilitazione. Dico anche una cosa forte ma fondamentale: quando serve si devono espropriare quei beni lasciati in disuso per troppi anni. Abbiamo le leggi per farlo. Non abbiamo cultura però, perché ci sembra impopolare, ma le amministrazioni potrebbero agire con la forza in contesti di degrado, quando Stato e privati falliscono. Che io ricordi è successo anni fa a Brescia, al quartiere Carmine. L’amministrazione ha imposto la rigenerazione del quartiere anche così, ed è stato un successo. 

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